Concilio e nuove norme codiciali: l'esempio del Can. 522
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1_Rapporto Concilio-Codice nel magistero della promulgazione. 2_Lo status quæstionis della `mobilità' dei Parroci. 3_Concilio Vaticano II e mobilità dei Parroci. 4_Christus Dominus 31. 5_La nascita del Can. 522. 6_Lettura del Can. 522. 7_Una soluzione `doverosa' e legittima. 8_Conclusione.
1_ Rapporto Concilio-Codice nel magistero della promulgazione.
Negli anni intorno alla promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1983 molto si é scritto e molto più si é detto circa il rapporto tra il Concilio Vaticano II ed il Codice che lo ha seguito; lo stesso magistero pontificio ordinario[1] ha partecipato in modo più che significativo a delineare la stretta rete di rapporti che legano questi due `eventi' ecclesiali... già `concepiti' insieme[2], anche se nati -per forza di cose- ad un ventennio di distanza.
La dottrina proclamata in merito, tanto dal magistero pontificio che da una parte significativa degli studiosi, é basata sul presupposto della continuità ecclesiologica e della concretizzazione istituzionale delle affermazioni conciliari. Quanto scritto ed affermato dal romano Pontefice nelle diverse circostanze occasionate dalla `presentazione' del nuovo Codice appare piuttosto eloquente in materia; anche le `immagini'[3] entrano a complementare questo complesso orizzonte.
Scrive Giovanni Paolo II nella Costituzione apostolica di promulgazione del CIC "Sacræ Disciplinæ Leges":
"lo strumento, che è il Codice, corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente come vien proposta dal magistero del Concilio Vaticano II in genere, e in particolar modo dalla sua dottrina ecclesiologica. Anzi, in un certo senso, questo nuovo Codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè la ecclesiologia conciliare. Se poi è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio "canonistico" l'immagine della Chiesa, tuttavia a questa immagine il Codice deve sempre riferirsi, come a esempio primario, i cui lineamenti esso deve esprimere in se stesso, per quanto è possibile, per sua natura.
Da qui derivano alcuni criteri fondamentali, che reggono tutto il nuovo Codice, nell'ambito della sua specifica materia, come pure nel linguaggio collegato con essa.
Si potrebbe anzi affermare che da qui proviene anche quel carattere di complementarità che il Codice presenta in relazione all'insegnamento del Concilio Vaticano II, con particolare riguardo alle due costituzioni, dogmatica Lumen gentium e pastorale Gaudium et spes.
Ne risulta che ciò che costituisce la "novità" fondamentale del Concilio Vaticano II, in linea di continuità con la tradizione legislativa della chiesa, per quanto riguarda specialmente l'ecclesiologia, costituisce altresì la "novità" del nuovo Codice"[4].
L'indirizzo pontificio appare senza tentennamenti nel tracciare una linea `discensiva' dal Concilio al Codice, dall'ecclesiologia all'istituzionalità, da una nuova immagine di Chiesa alla sua rinnovata struttura e funzionalità: il Codice `deriva' dal Vaticano II e lo `traduce' in rapporti quotidiani all'interno della Comunità ecclesiale.
Lo stesso Pontefice illumina questa strada affermando ancora:
"Studium Codicis, Schola Concilii! E' proprio così che occorre vedere lo studio prolungato del Codice: la percezione delle connessioni che collegano i canoni tra loro, la comprensione dello spirito che li unifica, l'applicazione pastorale che deve farne l'attuazione sempre più fedele del Concilio, l'adattamento voluto dal Concilio ai paesi, alle culture ed alle situazioni differenti, la competenza riconosciuta nel Codice ai Vescovi diocesani ed alle Conferenze episcopali sono un segno e una missione nuova, di cui tutto il popolo di Dio prendere coscienza a poco a poco"[5]
Di fatto anche la `logica' cui dichiarano di essersi continuamente rifatti gli elaboratori del nuovo Codice pare suffragare questa impostazione di carattere `deduttivo': a Concilio ad Codicem; valgano per tutte le dichiarazioni del Segretario della Commissione di Revisione codiciale il Card. Castillo Lara:
"questa traduzione del Concilio in norme giuridiche rappresenta[va] per noi un principio molto importante e di non facile applicazione, che ci obbligava continuamente a ricorrere ai testi conciliari e ad esaminare se ci muovevamo nell'orbita di questo Concilio"[6],
ed anche: "la fedeltà al Concilio é stato quindi il principio direttivo generale più importante, .... Il `Concilium dixit' diventò il criterio definitivo di discernimento"[7].
Parecchie norme tuttavia, presenti nel nuovo Codice, sembrano contraddire questi presupposti, permettendo al CIC di mantenere istituti giuridici che il Concilio aveva -di per sé- già eliminato attraverso un adeguato strumento giuridico: un decreto conciliare regolarmente promulgato dal romano Pontefice[8].
Oltre a ciò, non si possono ignorare evidenti fenomeni di `riflusso dottrinale' circa l'impostazione magisteriale proposta ufficialmente dal Legislatore; di fatto la dottrina espressa nello schema `a Concilio ad Codicem' non pare univoca neppure tra gli `addetti ai lavori' in quanto lo stesso Card. Castillo Lara ha anche espressamente affermato:
"adesso si sa chiaramente, almeno nelle linee generali, che cosa vuole il Concilio Vaticano, in questioni di ecclesiologia e di disciplina, perché la volontà reale della Suprema Autorità ecclesiastica si trova concretizzata nelle formule chiare e precise del Codice"[9]
...lasciando così intendere che quanto espresso dal Concilio non rappresentasse "la volontà reale della Suprema Autorità ecclesiastica" e che -anzi- sia lo stesso Concilio a dover essere letto alla luce del Codice.
A questo si aggiunga l'osservazione che i dieci `principi' proposti dalla stessa Commissione pontificia di revisione del Codice al Sinodo dei Vescovi del 1967 -e da questo approvati- non contengono riferimento alcuno a questo principio ermeneutico di base per la realizzazione dell'intera opera di revisione codiciale[10].
Una controprova interessante della veridicità di quanto dichiarato ed insegnato circa il presupposto `deduttivo' tra Concilio e Codice può essere ricercata nelle norme canoniche innovative introdotte dal CIC: come sono nate e -soprattutto- quale mandato conciliare concretizzano?
Una norma sostanzialmente innovativa che ben si presta a `verificare' la proclamata `dipendenza' del Codice dal Vaticano II, anche a causa della sua attualità e pregnanza pastorale, é il canone 522[11] che introduce la nomina dei Parroci ad certum tempus contraddicendo apertamente la dottrina, la prassi[12] ed il Diritto[13] precedenti proprio a partire da un laborioso processo di riflessione e discussione assolutamente conciliare; l'articolazione di un percorso storico-istituzionale attraverso le differenti fasi giuridiche che la materia ha conosciuto nel XX sec. servirà opportunamente a fornire una risposta rigorosa -e non ideologica- alla domanda: "il Codice dipende effettivamente dal Concilio?"
2_ Lo status quæstionis della `mobilità' dei Parroci
La condizione giuridica del Parroco -europeo soprattutto- all'inizio del XX sec. era giunta ormai ad un punto critico di notevole portata giuridico-istituzionale:
- la `rinascita' ecclesiale conseguita al Vaticano I e contrapposta all'avanzare delle nuove teorie e modelli sociali (liberali, massonici, socialisti, laicisti) aveva destato una nuova sensibilità pastorale che portava a sottolineare una dimensione ministeriale piuttosto differente da quella post-tridentina;
- il lento ricupero dello sconvolgimento napoleonico che aveva scosso l'Europa intera fin dalle fondamenta storiche non poteva comunque ignorare le `acquisizioni', soprattutto giuridico-istituzionali, sgorgate dalla Rivoluzione francese, nonostante la Restaurazione ed il successo delle dottrine liberali;
- il nuovo clima di rapporti tra Sede Apostolica romana e governi europei ormai appannaggio dello strumento concordatario, grazie anche alla dottrina dello Jus publicum ecclesiasticum, comunemente accolto negli ambienti pontifici;
stavano portando alla luce uno status del Parroco molto diverso da quello stratificatosi durante il Medioevo.
Il Parroco del Vaticano I, pur ancor saldamente radicato nel sistema beneficiale (unica sua fonte di sostentamento), non poteva però più ritenersi `intoccabile' com'era stato per lunghi secoli; il vulnus maggiore al suo status perpetuitatis lo aveva infatti inferto Napoleone quando attuando il `proprio' Concordato aveva in un sol colpo trasformato oltre 20.000 Parroci francesi in semplici "desservents" senza diritti di sorta... col `buon gioco' dello stesso Episcopato francese che non riuscì a sottrarsi al fascino di tanta `mobilità' presbiterale acquisita senza colpo ferire[14].
"Les Articles Organiques", confezionati dal Governo francese in attuazione unilaterale del Concordato del 1801 avevano introdotto una vera bipartizione dei Parroci francesi distinti ormai in `inamovibili' ed `amovibili' a seconda che fossero o no Parroci di capoluogo comunale; il CIC 17 aveva poi raccolto questa `novità' giuridica, seppur ridimensionandola fortemente, rendendola la norma di fatto per la Chiesa universale.
Il secolo intercorso tra il Concordato napoleonico ed il Codice Pio-Benendettino aveva conosciuto una lunga serie di situazioni in cui parecchi Vescovi, sfruttando il sostegno di nuove dottrine pastoral-canonistiche, e speciali facoltà concesse sempre più facilmente da Roma[15], avevano proceduto alla rimozione `disciplinare' (amministrativa o "oeconomica") di molti Parroci senza applicare le procedure e garanzie del c.d. `processo criminale'; questi fatti avevano contribuito, per vie diverse, a creare una chiara sensazione di `precarietà' nella maggior parte dei Parroci europei... il Decreto Maxima Cura[16], nel 1910, ed il Codice nel 1917, parvero una vera ancora di salvezza e `stabilità'[17] per la maggior parte del Clero secolare all'inizio del XX secolo, consolidando nella maggioranza dei Parroci un atteggiamento `di forza' simile a quello che aveva attraversato il Medioevo (contraddistinto dalla perpetuitas subiectiva del beneficiario).
Gli esiti di questa rinnovata immobilità dei Parroci non fallirono però l'appuntamento con la fase `antepreparatoria' del Concilio Vaticano II quando, con la raccolta dei vota et desiderata dei Vescovi dell'intera cattolicità, il problema della mobilità dei Parroci si affacciò prepotente nei pensieri e desideri di molti Vescovi.
3_Concilio Vaticano II e mobilità dei Parroci
La raccolta dei pareri dell'Episcopato in vista del Vaticano II mostrò l'emergere prepotente della richiesta di ridimensionare l'inamovibilità dei Parroci mediante la sostanziale eliminazione del Can. 454 del Codice Pio-Benedettino; ciò appare chiaramente quando si chiede ex professo -da tutte le parti del mondo- che le nomine dei Parroci siano ad nutum Episcopi[18], o che tutti i Parroci siano `amovibili'[19], o che sia comunque eliminata la distinzione tra le due tipologie di Parroci e di parrocchie[20].
Risalta in questa fase la qualità prettamente pastorale delle motivazioni che i Vescovi adducono a sostegno delle proprie richieste; ciò evidenzia come l'invocata modifica dell'inamovibilità dei Parroci sia frutto di una profonda evoluzione della mentalità e sensibilità ecclesiali che vede ormai nel Vescovo il `pastore' e nel Presbiterio uno `strumento' per l'esercizio del ministero pastorale a lui affidato[21].
Frequentemente -secondo i Vescovi- svanisce la propagazione del Vangelo, in parrocchie di solito grandi, a causa dell'età, della capacità o dell'indole del pastore che tuttavia sarebbe adatto ad occupare compiti inferiori[22]. Molti mali derivano inoltre alle parrocchie per imperizia o negligenza o anzianità dei Parroci; la potestà episcopale di trasferire o rimuovere gli incapaci potrebbe essere uno stimolo efficace verso i negligenti e gli incapaci[23]. Frequentemente capita anche che i Vescovi a causa della necessità di Clero, debbano promuovere all'incarico pastorale sacerdoti carenti di esperienza ed altre qualità; per questo in quelle regioni il bene dei Fedeli pare suggerire che i Vescovi possano nominare Parroci dal Clero secolare per tre o cinque anni com'é per il Clero religioso; questa assegnazione temporanea dei Parroci permetterebbe di far uso in modo migliore delle abilità dei sacerdoti, offrendo altresì la possibilità di rimuovere i Parroci per inefficienza o per età senza ricorrere a cause canoniche[24] che sempre più spesso si attuano non senza scandalo o `meraviglia' da parte dei Fedeli[25].
Inoltre, se al Vescovo incombe personalmente la cura delle anime di tutta la Diocesi, é necessario che egli possa esercitare il proprio ufficio; l'inamovibilità dei Parroci, al contrario, debilita sommamente il governo della Diocesi... diventando origine di tante paralisi della vita spirituale[26].
L'inamovibilità dei Parroci nuoce al bene delle anime, quando il Parroco o per età o per infermità o per inettitudine ad un ministero fruttuoso, non riesce a comportarsi come le odierne esigenze dell'apostolato richiedono; in tali circostanze accade che se il Parroco persiste nel rimanere in parrocchia il frutto di un ministero già prestato in modo anche egregio inizia progressivamente a disperdersi. Non difficilmente un lavoro pastorale fruttifero é reso difficile dall'inamovibilità del Clero beneficiato, generalmente dei Parroci; non raramente poi i curatori d'anime tengono per più anni un posto del quale non sono all'altezza[27] ed i danni dell'inamovibilità superano certamente il pericolo di una rimozione ingiusta[28].
A queste richieste più `dirette' se ne aggiungono altre più interessanti sotto il profilo sostanziale e prospettico: quelle che coniugano la questione della mobilità del Clero, con quella ben più radicale della `natura beneficiale' dell'ufficio ecclesiastico; secondo questi Vescovi, solo intervenendo sul `sistema' si potranno avere esiti apprezzabili anche sulla in/amovibilità dei Parroci; la lunga durata dell'ufficio di Parroco deriva infatti principalmente dalla sua forma `beneficiale', la cui modifica dischiuderebbe il cammino verso una nuova configurazione dell'ufficio stesso[29].
In atteggiamento di `riserva' rimangono i "Proposita et monita SS. Congregationum Romanæ"[30] che ritengono valido l'istituto dell'inamovibilità dei Parroci affinché non si adempia meno efficacemente il ministero pastorale a causa dell'insicurezza cui ci si troverebbe esposti[31]; si chiede tuttavia di moderare tale istituto apponendo opportuni limiti di età (suggeriti: 70-75 anni) oltre i quali la `nota' di inamovibilità decada.
Il frutto della complessa consultazione fu esaminato da apposite Commissioni che, raccogliendo quanto espresso in vario modo, armonizzarono le diverse richieste intorno a temi generali di primo riferimento procedendo poi ad una riflessione organica e alla stesura degli `schemi' di lavoro per le diverse Commissioni, prima di proporre i testi alla discussione ed approvazione dei Padri conciliari.
Sul tema `inamovibilità dei Parroci' furono redatte quarantasei schede[32]: le richieste di riforma della legge dell'inamovibilità dei Parroci furono 135 cui aggiungerne 58 favorevoli all'abolizione esplicita della stessa inamovibilità; altri 16 chiesero di abolire l'inamovibilità da tutti gli uffici ecclesiastici; decine di altre richieste riguardavano la riduzione delle procedure di rimozione dei Parroci o il loro generale snellimento.
Il tema, data la pertinenza sostanziale ad ambiti differenti quali il governo delle Diocesi (dal punto di vista dei Vescovi che assegnano gli uffici ecclesiastici) e la disciplina del Clero (dal punto di vista dei Presbiteri che svolgono gli stessi uffici, traendone anche il sostentamento), fu esaminato parallelamente dalle rispettive Commissioni interessate[33] e quindi concertato in una Sottocommissione mista che fissò gli `estremi della questione' per i successivi lavori autonomi delle due Commissioni.
La Sottocommissione mista (aprile 1961) pose quale punto fermo il principio della stabilità del Parroco nel proprio ministero, lasciando in disparte il principio dell'inamovibilità e quello della distinzione tra Parroci amovibili ed inamovibili[34] che fu trascurato fino alle ultime fasi della discussione conciliare.
L'introduzione dello schema "De Parochorum stabilitate"[35] nella seconda Congregatio della "Commissione sui Vescovi ed il governo diocesano" (21/02/1962) sottolineava:
a) la stabilità dei Parroci in funzione pastorale,
b) una maggior libertà d'azione per i Vescovi e
c) la modifica della procedura amministrativa di rimozione.
Comparve qui per la prima volta la formula della `stabilità relativa': "Parochi in eadem paroecia stabilitas eousque recognoscatur quousque revere illam animarum bonum exigat"36.
Di fatto lo schema, citando il Decreto "Maxima Cura", proponeva al n. 2 la stabilità dei Parroci `secondo che' (prout) fosse richiesta dall'ufficio pastorale; al n. 3 si apportavano poi modifiche al Can. 454 [[section]][[section]]2-3 eliminando la distinzione tra Parroci amovibili ed inamovibili e riconoscendo al Vescovo il diritto di rimuovere qualunque Parroco per una delle cause già indicate -esemplificativamente- al Can. 2147 [[section]]2; di seguito si indicavano le nuove modalità per la procedura di rimozione amministrativa[37].
Il limite delle Commissioni Antepreparatorie fu il non poter operare direttamente sulla `inamovibilità' dei Parroci poiché troppo legata alla natura beneficiale dell'ufficio ricoperto; solo l'abolizione di tale vincolo avrebbe reso possibile la riforma completa del munus parrocale.
4_Christus Dominus 31
Nel primo schema "De cura animarum"[38] presentato ai Padri conciliari, il testo appare meno articolato di quello discusso dalla Commissione Preparatoria; manca il riferimento alla suprema lex ma é rimasta la definizione della natura `pubblica' dell'ufficio parrocale e la sua finalizzazione spirituale. La nota della stabilitas é affermata con un indicativo (sunt) e la sua natura `relativa' risulta da un evidente nesso consecutivo: siccome la ratio dell'ufficio del Parroco é il bene spirituale dei Fedeli, allora questo `bene' diventa il criterio da utilizzarsi per `dosare' la sua permanenza ...la possibilità di rimozione é logica conseguenza delle premesse esplicitate; nessuna menzione appare a riguardo della distinzione tra Parroci amovibili ed inamovibili introdotta dal Codice Pio-Benedettino.
Nella seconda redazione dello schema[39] (anno 1963) il testo subì un taglio e, pur non cambiando la sostanza, cadde la nota `avversativa' circa la natura non privatistica dell'ufficio parrocale.
Nel secondo periodo dei lavori conciliari[40] lo schema del Decreto "De cura animarum" subì forti manipolazioni[41]: il testo assunse un carattere più discorsivo ed anche la sostanza risultò mutata: non si parla più unicamente di Parroci ma si ritorma ai Rectores proprii; soprattutto però é caduto il riferimento `relativo' della stabilità che ora pare più `assoluta': legata cioé all'essere Rector proprius. Altro passaggio significativo é l'introduzione nel testo della necessitas o magna utilitas quali motivi di intervento da parte del Vescovo per operare un trasferimento o una rimozione.
Al termine del secondo periodo dei lavori conciliari lo schema "De cura animarum" fu integrato in quello complessivo del Decreto "De pastorali Episcoporum munere in Ecclesia" con una veste parecchio ridotta: é il "Textus Prior"[42] proposto ai lavori del terzo periodo.
La relazione sui singoli numeri del c.d. textus prior, accompagnata dagli interventi dei Padri sullo schema, rifiutò la proposta di inserire una clausola che impedisse ai Parroci di oltrepassare il quinquennio di permanenza nella stessa sede; la risposta negativa della Commissione intese evitare il crearsi di una situazione e mentalità simile a quella dei c.d. `funzionari' pubblici[43].
Nella 113deg. Congregatio Generalis emersero nei confronti del Textus prior un certo numero di animadversiones significative da parte dei Padri conciliari; la Commissione le raccolse e sintetizzò in `principi' da osservarsi nel riformulare il testo del Decreto:
"a) in nominandis, transferendis aut amovendis Parochis, immo et in officii renuntiatione, bonum animarum suprema ratio semper esse debet;
b) illa iura et privilegia supprimere oportet, quæ Episcopi libertatem in Parochorum nominatione coarctare possunt;
c) aliqua stabilitate in munere obeundo revera Parochi gaudere debent, ne cura animarum inde detrimentum capere possit"[44].
La presunta necessità di `semplificare' il testo per armonizzarlo e proporzionarlo col nuovo schema aveva in effetti indotto la Commissione a lasciar cadere elementi non trascurabili, né da potersi sottintendere, che furono quindi ripresi ed integrati.
La Commissione dovette sostanzialmente riprendere l'ultimo schema "De cura animarum" poiché buona espressione dei tre `principi' emersi dalle richieste dei Padri conciliari; per questa via fu reintrodotta la `relatività' della stabilitas Parochi, così come la menzione della distinzione tra Parroci amovibili ed inamovibili: il testo finale tiene così conto della portata di questa terminologia/mentalità purtroppo così radicata nel Clero.
Lo schema presentato ai lavori delle successive Congregationes Generales non subì cambiamenti rispetto al c.d. Textus emendatus ed il 28 ottobre 1965 Papa Paolo VI lo promulgò come n. 31 del Decreto "De pastorali Episcoporum munere in Ecclesia, Christus Dominus"[45]: un bell'esempio di perfetta assonanza tra teologia e diritto nell'ottica di profonda attenzione pastorale che animava l'Episcopato; proprio CD 31 é indicato quale fonte del Can. 522 e ne esplicita senza dubbio la ratio fundamentalis: il bonum animarum!
Nel testo risalta anche l'orientamento decisamente pastorale del Concilio nel suo significato più profondo: la cura del Popolo di Dio affidata ai Parroci é costitutivamente funzionale al bene dei Fedeli[46]: é da valutarsi proprio in questa volontà deliberata di sconfessare l'immobilità personale dei Parroci la chiara affermazione sulla loro `stabilità relativa' in funzione pastorale[47].
A questo proposito é necessaria una lettura puntuale di quanto stabilito dal Decreto conciliare: "Parochi vero in sua quisque paroecia ea gaudeant stabilitate in officio, quam animarum bonum requirat".
Si tratta di due proposizioni in evidente rapporto di subordinazione relativa in cui la `subordinata' rende esplicito (quam) il rimando della principale (ea), essendone questo l'elemento qualificante. In tal modo é il bonum animarum il criterio cui occorre sottomettere e commisurare la stabilità dei Parroci nell'ufficio loro affidato.
Circa la stabilitas di cui tratta CD 31 non si può evidentemente affermare che "il nuovo orientamento favorisce l'amovibilità, ma non esclude affatto la stabilità nell'ufficio del Parroco"[48], come se stabilità ed amovibilità fossero concetti contrapposti, o contrapponibili; allo stesso modo non si può neppure identificare stabilità e `nomina a tempo indeterminato'[49]. L'iter dei lavori conciliari dimostra infatti che la stabilitas é semplicemente la non possibilità di effettuare nomine di Parroci -non religiosi- ad nutum Episcopi, e la necessità di un `sufficiente' motivo di carattere pastorale per la loro rimozione o il trasferimento ad altro ufficio ecclesiastico; appare così evidente come il `transito' del terzo periodo di CD 31 nel Can. 522 sia privo della propria ratio fundamentalis, tanto che un'affermazione incontestabilmente `relativa' (vero ea gaudeant quam) é stata resa `assoluta' (gaudeat oportet) stravolgendone irreversibilmente la legittimità normativa[50] e dottrinale.
E' pertanto evidente che per i Padri conciliari "bonum animarum" e "stabilitas Parochi" sono elementi indipendenti, in strutturale rapporto dialettico -che non necessariamente deve diventare conflittuale- il cui `baricentro' é senza dubbio variabile: arbitro di questa doppia `polarità' é comunque il Vescovo diocesano attraverso la `provvisione canonica' che spetta a lui solo quando si tratti di Parroci e Vicari Parrocchiali.
Uno sguardo globale al lavoro conciliare porta ad osservare come, nonostante il CIC 83 accogliendo il mandato del Vaticano II lo abbia applicato spesso con fedeltà, in riguardo alla stabilitas sia emersa una forte reticenza proprio nei riguardi di ciò che più stava a cuore all'Episcopato di entrambi i Concili Vaticani: la tutela `incondizionabile' del bonum animarum[51]; gli elementi fondamentali dell'articolazione di CD 31 in funzione pastorale risultano infatti disattesi nel Can. 522 che recepisce solo parzialmente il dettato del Decreto conciliare, nonostante la sua chiarezza e vincolatività. Non sfugge inoltre come le richieste dei Padri conciliari siano state esaudite in modo non sostanziale nella generalità dei canoni sulla nomina dei Parroci, la loro cessazione dall'incarico e la rimozione/trasferimento.
5_ La nascita del Can. 522
I primi lavori intorno all'attuale Can. 522 risalgono all'ottobre 1970 quando all'interno del "Coetus Studii "De sacra hierarchia"" si trattò per la prima volta il tema della nomina `temporanea' del Parroco; la proposta fu accolta dai consultori con generale consenso tanto che si parlò da subito di un regolare primo quinquennio di nomina cui sarebbe potuta seguire una conferma ad tempus indeterminatum[52]. I due `tempi' di nomina non apparivano così contrapposti ma complementari: il tempus determinatum iniziale per verificare idoneità `relativa', intraprendenza pastorale ed `ambientamento' del nuovo Parroco, il tempus indeterminatum come giusta continuazione di ciò che già si conosceva come positivamente funzionante.
A riguardo della precedente norma (Can. 454, CIC 17) non emersero ancora proposte di variazione, né si specificò in quale modo adeguarlo così da recepire le novità proposte; si trattò essenzialmente di un primo `abboccamento' del Gruppo di studio che inaugurò una nuova pista di discussione e confronto ponendo premesse che risulteranno poi incontestabili.
La Sessione successiva (febbraio 1971) riprese la trattazione del tema con l'esame di un testo (le c.d. "normæ propositæ") che cambiava completamente gli scenari precedenti[53]: la regola generale doveva essere la nomina ad indeterminatum tempus e la nomina ad tempus determinatum veniva ammessa in modo solo concessivo[54] (tamen) sottraendo la materia alla discrezionalità del Vescovo diocesano per sottoporla ad una concessione (permittitur) della Conferenza Episcopale. Rispetto al precedente Can. 454 fu eliminato il concetto di stabilitas, sostituito dalla nomina ad indeterminatum tempus introdotta senza nessun tipo di specifiche, mentre la nomina ad tempus determinatum si attestò come una realtà non più ignorabile, anche se con un certo senso di `eccezionalità'.
Il cambiamento rispetto alla Sessione precedente era notevole: la norma proposta non rispettava più l'istanza della prova di `idoneità relativa' tra Parroco e Comunità parrocchiale; allo stesso tempo continuava a mancare il termine -e concetto- di stabilitas non ancora ritenuto -evidentemente- importante ...anche se in seguito si pretenderà di farne la ratio fundamentalis del canone. Come può essere legittimamente ritenuto `criterio base' di una norma un concetto-valore che, pur appartenendo già alla norma da modificare, nelle prime due Sessioni di lavoro risulta addirittura cassato?
A sorpresa cinque anni dopo[55], nella Sessione dedicata alle delibere per l'ultima ricognizione degli schemi del Libro "De populo Dei", da presentarsi alla consultazione esterna, si presentò e discusse non la formulazione del 1971, ma una nuova stesura del canone originale[56]: il 454 [[section]]1 (CIC 17), mai preso antecedentemente in considerazione.
Il nuovo testo, a differenza del precedente, conservava una qualche referenzialità alla norma originaria di cui manteneva il tenore dell'incipit, seppure con sostituzioni significative nel vocabolario; il resto del Can. 454 [[section]]1 (CIC 17) cadde completamente, sostituito dalla possibilità della nomina ad determinatum tempus e dalla procedura per la sua introduzione.
Fu in quella circostanza che si fissò definitivamente la nomina del Parroco ad indeterminatum tempus come `ordinaria', lasciando l'altra forma come secondaria e sottomessa alla delibera previa della Conferenza Episcopale, confermando così la `debolezza' della nomina ad certum tempus che non poteva essere `statuita' ma (solo) `permessa'; il "permissum fuerit" conferiva poi al testo un'indubbia valenza concessiva che rinforzava il "tamen" introduttivo della seconda parte del canone.
Va notata, inoltre, la sostituzione dell'aggettivo "determinatum" con "certum"; sostituzione non motivata da istanze esplicite, ma certamente non utile ad una buona `stabilità' del testo e fonte di successivi problemi interpretativi.
Il testo inviato nel 1977 per la consultazione e le osservazioni appariva così redatto:
"Qui in paroecia pastorali curæ præficitur qua paroeciæ Parochus, ad indeterminatum tempus nominetur; ad certum tamen tempus ab Episcopo dioecesano nominari potest, si ita ab Episcoporum Conferentia regionis, per decretum ad normam can. 205 editum, permissum fuerit"[57].
Il passo decisivo per l'evoluzione della norma fu comunque l'VIII Sessione del "Gruppo di studio per l'esame delle osservazioni trasmesse dagli Organi consultivi" circa lo schema "De populo Dei" del 1977 (8 maggio 1980) 58 quando si affacciò per la prima volta il termine-concetto, fino ad allora ignorato, di stabilitas; le modalità della sua introduzione appaiono illuminanti circa la sua natura ed il suo `valore' e costituiscono l'unico vero elemento non pretestuoso per cogliere la ratio legis del Can. 522.
Un Organo consultivo attento alle istanze conciliari, riprendendo le primissime istanze della Commissione stessa, aveva sostenuto la nomina ordinaria del Parroco per un tempo determinato; contro questa affermazione, cassata in Commissione già dal 1971 senza giustificazioni, il Segretario della Commissione dichiarò che: "il Parroco deve godere di una certa stabilità e non deve essere lasciato in balia delle decisioni del Vescovo", introducendo così due elementi assolutamente `nuovi': la `relativa stabilità' dei Parroci ("...una certa stabilità...") e la loro `tutela' dall'arbitrio dei Vescovi ...manifestando altresì una sfiducia `strutturale' nei confronti dell'Episcopato e del suo agire verso i propri primi collaboratori.
La nozione di stabilitas così introdotta dal Segretario della Commissione risulta il vero fulcro di tutto il canone: egli sostenne infatti la portata `qualitativa' e non temporale della stabilitas affermando che "la stabilità può coesistere con il concetto di tempo definito, perché `stabilitas' significa non che debba essere nominato per un tempo indefinito, ma che, `eo durante non debet amoveri'", non allontanandosi in ciò da quanto già affermato dal Can. 454 [[section]] 2 (CIC 17) che conosceva due tipologie di stabilitas: maior e minor. Essendo pertanto un tale concetto di stabilitas del tutto privo di una propria consistenza sostanziale, visto che lo si usa per definire situazioni antitetiche[59], occorre bandire con lucidità ogni interpretazione `evolutiva' e pseudo-pastoralistica della stabilitas del Can. 522[60], tenendo conto unicamente della `natura' ed intenzione indicate da chi l'ha introdotta.
Di fatto il testo finale del canone collegherà univocamente la stabilitas al tempo indeterminato in modo consequenziale: "ideoque", stravolgendone la natura.
Non era mancato neppure in quella sede chi riproponesse il precedente concetto di stabilitas come inamovibilità dei Parroci delle parrocchie più importanti... ignorando tranquillamente, dopo soli 15 anni, la statuizione perentoria di CD 31 circa la necessaria abolizione dell'inamovibilità; la cosa, a suo dire, non avrebbe dovuto creare nessun problema pratico vista la possibiltà per i Vescovi di intervenire comunque ad normam iuris per eventuali rimozioni. Lo stesso consultore mostrò pure disagio verso la formula "ad indeterminatum tempus" per la intrinseca `negatività' del concetto, non compatibile con l'invocato concetto di stabilitas del Codice precedente; dello stesso parere chi dichiarò in quella sede che "la precarietà di un Parroco può influire negativamente anche nelle vocazioni sacerdotali".
Alla contestazione della formula "indeterminatum tempus" perché inadeguata e troppo precaria si ovviò -irrisoriamente- con la formula, del tutto equivalente, "indefinitum tempus" che permarrà pacificamente fino alla stesura definitiva del canone divenendone, anzi, uno dei punti di `forza' strutturali e, nel contempo, la maggiore debolezza concettuale, interpretativa ed applicativa.
L'ultima istanza di modifica del Can. 454 fu proposta dallo stesso Segretario che, giudicando la prima parte del testo come un'inutile ripetizione della definizione di Parroco già data al canone 359 (dello Schema 1977), la fede `cadere'.
La formulazione del canone 522[61] così emersa dalla `recezione' della consultazione non possedeva più neppure l'assonanza testuale col Can. 454 [[section]] 1 (CIC 17) e l'unico elemento `rimasto', neppure testualmente fedele, sembra essere la sola stabilitas.
Non può sfuggire tuttavia come la nuova formulazione mostrasse più evidenti assonanze con CD 31, non citato né evocato dai consultori, ma ormai testualmente presente. Questo porta inevitabilmente, però, ad attivare una linea interpretativa della stabilitas non più secondo la dottrina del CIC precedente ma conforme all'intendimento conciliare, di tutt'altro tenore.
Va anche notato come, a partire da questo momento, il canone apparirà assolutamente `libero' da ogni legame, anche testuale, con la componente pastorale: scomparse ormai la `cura pastorale' e la `parrocchia', unici soggetti ed oggetti della disposizione normativa rimarranno: il Parroco, la `sua' nomina, il `suo diritto' di permanere nell'ufficio. La figura del Parroco appare così una figura `autonoma', autoreferenziale ed autofondata: il Parroco risulta una sorta di `monade'[62], non integrata nel Corpus Presbyterorum e con statuto proprio e proprie peculiarità legate non al ministero affidatogli ma alla sua `condizione' di Parroco; si tratta di una figura `localizzata' anziché `contestualizzata'. Mentre per l'Episcopato é possibile riconoscere un forte progresso di rivisitazione teologica a partire soprattutto dal Concilio e dalla sua ecclesiologia, per il Parroco nulla appare di tutto ciò: si tratta solo del `trapianto' di una figura ormai completamente delineata e statica, almeno canonisticamente, su cui non influisce nei fatti la mutata ecclesiologia: ciò che `appartiene' al Parroco é già definito e `tutelato' dalla storia e non viene toccato, se non marginalmente, dalle conseguenze del Vaticano II!
Sotto il profilo letterale, il "tamen" concessivo che precedentemente evocava con certezza la `secondarietà' della formula temporanea di nomina subordinandola all'altra, è stato sostituito con un "tantum si" di valore restrittivo tecnico e procedurale; il testo proposto alla consultazione finale, nonostante le forti spinte a detrimento delle nomine ad certum tempus, si mostra pertanto meno sfavorevole a tale forma di nomina... almeno dal punto di vista strutturale; non é possibile tuttavia rinvenire le cause e motivazioni di questi cambiamenti data la `sommarietà' della verbalizzazione disponibile[63]. Dopo questa fase dei lavori sostenere l'assoluta secondarietà delle nomine ad certum tempus non sarà più evidente né scontato.
Non é possibile tuttavia concludere queste osservazioni senza tener conto di un fatto decisivo nell'evoluzione del testo dispositivo e della materia stessa: la stabilitas di matrice conciliare inclusa nel canone é stata irrimediabilmente privata della propria naturalis ratio: la salus animarum che tanto premeva ai Padri conciliari; "al contrario, il riferimento alla "salus" o "bonum animarum", che sono il fine del ministero pastorale, manca totalmente nei canoni riguardanti i Parroci e si trova soltanto nel contesto dei processi"[64].
Durante la Sessio Plenaria della Commissione (ottobre 1981)[65] furono avanzate tre richieste di revisione al testo del canone:
1) Qualcuno rilevò la distanza tra il testo del canone proposto ed il mandato conciliare, proponendo a proposito di stabilità l'inserzione dell'inciso "quam animarum bonum requirit" tratto da CD 31[66]; l'obiezione rilevò anche una doppia contrarietà alla volontà conciliare relativa all'uso della forma "ad tempus indefinitum" ritenuta ambigua per una possibile identificazione tra "ad tempus indefinitum" e "ad nutum Episcopi" ed interpretata nocivamente per la stabilità del Parroco nei confronti del `suo' Vescovo; l'altra contrarietà individuava un possibile `slittamento' di fatto del tempus indefinitum proprio nella inamovibilità stessa ricusata dal Concilio.
Il Relatore sancì la definitività del testo, senza gli emendamenti proposti, rimandando per questi particolari ai canoni "De Processibus", dove già "hac de re satis providetur"[67], non considerando -forse- come la natura di un rimando di questo tipo non può che pregiudicare alla radice il concetto stesso di stabilitas facendone una realtà tutt'altro che pastorale -diversamente dall'intento conciliare- e ponendo seri problemi all'azione dell'Episcopato stesso che non pare poter trovare a propria disposizione altre possibilità di una certa `forza' se non quelle `processuali'.
2) Fu chiesto anche di rispecificare la preminenza della nomina ad tempus indefinitum inserendo l'avverbio "ordinarie"[68] e la congiunzione avversativa "attamen". Si propose anche un apposito `voto' del Consiglio Presbiterale per ammettere in Diocesi quanto eventualmente previsto in materia dalla Conferenza Episcopale; il Relatore della Commissione non intervenne neppure, lasciando fluire la discussione.
3) Qualcuno dei Padri propose infine che a tutti gli uffici diocesani si venisse nominati per un tempo definito secondo opportuni statuti e col consenso del Consiglio Presbiterale.
Il Relatore giudicò come sufficientemente prudente quanto già stabilito nel testo discusso del canone. Ex offico fu poi tolto, per semplicità e chiarezza, il rimando finale al canone circa il decreto della Conferenza Episcopale.
Al termine dei lavori il canone si presentava nella sua stesura definitiva promulgata il 25 gennaio 1983: "Parochus stabilitate gaudeat oportet ideoque ad tempus indefinitum nominetur; ad certum tempus tantum ab Episcopo dioecesano nominari potest, si id ab Episcoporum conferentia per decretum admissum fuerit".
6_ Il testo del Can. 522
L'enunciato legislativo, pur nella propria brevità, si presenta articolato in quattro proposizioni di differente portata e con valore logico ben individuabile:
`Principale' k (;) `Coordinata alla principale' m (ideoque) m (tantum si) `Subordinata relativa-consecutiva' `Correlata'
1) La proposizione `principale'.
"Parochus stabilitate gaudeat oportet" si presenta come una non motivata[69] affermazione di valore da cui origina ogni altra proposizione logica e contenutistica; il Legislatore non offre nessuna motivazione né direzione di sviluppo contenutistico: la stabilità del Parroco é semplicemente data.
Soggetto dell'affermazione é la persona del Parroco che diventa quindi il soggetto dell'attribuzione normativa (la stabilitas), il suo portatore e beneficiario... colui che potrà rivendicarla come inerente la propria persona.
Uno sguardo complessivo al canone mostra che il Parroco é al contempo il soggetto e l'oggetto unico della norma; anche sintatticamente l'uso di verbi impersonali permette di fare correttamente questo rilievo e porlo in entrambe le `posizioni': `soggetto' dell'attribuzione normativa non é la parrocchia o il ministero come tale, ma la persona del Parroco.
Il `predicato verbale' di questa proposizione (gaudeat oportet) costituisce uno dei maggiori problemi di comprensione, e conseguente interpretazione, del canone stesso, poiché con ogni evidenza sono possibili due filoni di sviluppo sintattico ...ma soprattutto contenutistico:
a) quello, comunemente recepito, della necessità,
b) quello, altrettanto legittimo, dell'opportunità[70].
La determinazione interpretativa sarà in tal modo inevitabilmente `preconcetta', guidata cioè, dalla concezione ecclesiologica e/o pastorale sottostante.
Le stesse traduzioni in lingua corrente non sempre sono state concordi nell'adottare una forma piuttosto dell'altra[71].
necessità: opportunità: La forma verbale "gaudeat oportet", La forma verbale, `assoluta' rispetto data l'assolutezza del contesto e la alle motivazioni assenti, é chiaramente mancanza di riferimenti a circostanze prescrittiva: "gaudeat". L'aggiunta od altre componenti `relative', va tuttavia di oportet con la sua recepita come imperativa: la stabilità ambivalenza72, attribuisce `relatività' del Parroco é una "necessità"! a quanto appena affermato: si tratta di semplice opportunità, convenienza...
A riguardo del termine stabilitas, é poi ecessario evitare le `sabbie mobili' di una vera interpretazione evolutiva, solo ingenuamente pastorale; inutile risulta anche il tentativo di distinguere tra `stabilità oggettiva', propria dell'ufficio come tale, e `stabilità soggettiva'[73], propria di chi lo ricopre, in quanto ciò significa soltanto che il titolare dell'ufficio non può essere rimosso se non d'accordo con il modo e le cause stabilite dal diritto[74].
L'unica possibilità realistica e rigorosa di accostare `questo' termine é quella di rifarsi, come già mostrato, alla spiegazione di colui che l'ha introdotto: "eo durante non debet amoveri".
2) La proposizione `subordinata relativa-consecutiva'.
Il Parroco "...ad tempus indefinitum nominetur"; questa affermazione non é autonoma, ma dipende dalla precedente attraverso un nesso di subordinazione consecutiva: "ideoque". Quanto l'utilizzo di questa congiunzione, sia `ideologico' piuttosto che `consequenziale' risulta al tempo stesso evidente ed ambiguo, come hanno fatto ben notare, poco dopo la promulgazione del CIC, vari autori[75].
E' proprio questo termine di `collegamento' a rendere chiaro che per il Legislatore la nomina ad tempus indefinitum vorrebbe essere la corretta e concreta conseguenza della stabilità appena affermata come necessaria, od opportuna, anzi, lo strumento ordinario per realizzarla[76]. Di tale consequenzialità non si coglie tuttavia la `necessità' né testuale, né logica[77], tanto più che si nota con evidenza la presenza di due `salti logici':
a) Il collegamento `consequenziale' tra il concetto di stabilità e quello di `indeterminazione' operato attraverso l'avverbio ideoque; concetto qualitativo il primo, quantitativo il secondo; di fatto l'imposizione di una consequenzialità sintattica non é sufficiente a fondarne una logica;
b) l'utilizzo di una `quantità non-determinata' come parametro di permanenza e sinonimo di durata in contrapposizione ad una `quantità determinata' presunta come necessariamente scarsa o comunque non sufficientemente rilevante.
A conferma dell'incongruità d'uso dell'avverbio, e della scelta normativa che ne emerge, sta anche la corretta osservazione secondo cui "l'incongruenza dell'ideoque é rilevabile se si considera che nel canone 522 anche la nomina ad tempus determinatum é pensata all'interno della necessaria stabilità soggettiva del Parroco"[78].
Anche il termine indefinitum (tempus) riveste un'importanza capitale nel canone, trattandosi proprio di una questione di `tempi' e `durate'. La tematica cui questo termine si riferisce lo fa erede delle istanze di perpetuità ed inamovibilità proprie della precedente legislazione -e soprattutto dottrina- sull'officium curatum, pur denunciando una chiara e progressiva attenuazione delle `tinte' ed erosione del concetto originario[79]. Quanto già illustrato attraverso il lavori del Concilio Vaticano II autorizza una lettura in chiave di semplice non-definizione previa della durata dell'incarico, senza affermare né, tanto meno, promettere o garantire nulla di più a riguardo della revoca o sospensione del mandato stesso[80].
"Parochus... nominetur": affermazione scarna e spiccatamente `solitaria', visto che i Cann. 515 [[section]]1; 519; 520 utilizzano un'altra forma per indicare l'attribuzione dell'ufficio di Parroco: "comittitur, commissa, commissio" lasciando percepire una dimensione relazionale e di reciprocità con la parrocchia di cui si tratta[81]; nel Can. 522, invece, termini quali `parrocchia' o `ufficio' sono del tutto assenti: il concetto di `nomina', perciò continua ad inerire unicamente chi la riceve[82] in modo che la norma positiva continui a fondare un vero `diritto soggettivo' del Parroco, essendo presenti nel contempo: la legge (questo canone ed altri inerenti l'oggetto) ed un atto giuridico valido (la `nomina') che attribuisce un `titolo' di legittimità al diritto stesso facendolo rientrare nella sfera intangibile del `patrimonio' della persona in quanto `diritto acquisito'.
Sulla scorta di queste semplici considerazioni testuali appare evidente lo scarso contenuto teologico e pastorale del Can. 522, certamente al di sotto della `media' del Capitolo che lo contiene; ciò tuttavia rivela con chiarezza la sua particolare `natura': si tratta di una semplice norma di `procedura', pertinente non tanto al diritto sostanziale (teologico-pastorale), quanto piuttosto a quello formale ed in particolare, trattandosi dei tempi di conferimento di un ufficio, al Diritto `amministrativo'[83]. E' pertanto all'interno di quel contesto che il canone dovrà essere inquadrato per averne una corretta comprensione[84].
3) La proposizione `coordinata alla principale'.
Come la proposizione `principale' anche questa affermazione si presenta `assoluta' (=sciolta) da motivazioni e contenuti: "(Parochus) ad certum tempus [...] ab Episcopo dioecesano nominari potest"; semplicemente si impone una condizione previa: "tantum ... si", specificata normativamente più avanti.
La qualificazione sintattica della terza articolazione del canone ("coordinata") non é però affatto rispettata in quanto non esiste coordinazione tra la prima parte del canone e la seconda, quanto piuttosto un'interruzione con un ";" di sospetto valore disgiuntivo[85]; di fatto pare proprio che questa seconda parte sia soltanto giustapposta alla prima condividendone unicamente il soggetto (Parochus), ma non il tenore, la terminologia, né il contenuto.
Dal punto di vista sostanziale é questa terza proposizione l'assoluta novità del canone!
Rimanendo fedeli al testo, si nota come la terminologia non sia armonizzata con quanto precede: certum tempus, infatti, non é il contrario di tempus indefinitum; l'osservazione non é leziosa in quanto il CIC 17 fino a quel momento aveva distinto tra parrocchie/Parroci `inamovibili' ed `amovibili'; allo stesso modo durante i lavoro di revisione codiciale era comparsa più volte la formula tempus determinatum[86]; sarebbe stato certamente utile conservare questa chiarezza `antinomica' con l'uso di espressioni, più coordinate.
Come già in precedenza, l'analisi sintattico-grammaticale pone un problema di intellezione proprio a riguardo di tale formula, autorizzando due filoni di lettura in funzione del diverso significato attribuito al termine certum correlato con tempus. E' noto, infatti, come tale aggettivo possa essere utilizzato tanto in modo determinativo quanto al suo contrario[87], soprattutto in base alla collocazione rispetto al sostantivo di cui é apposizione[88].
A chi pretendesse di trovare facilmente un'interpretazione univoca rifacendosi all'uso `tecnico' del termine nella stesura dell'intero Codice l'impegno risulterebbe arduo poiché anche altrove si pone la stessa identica questione circa l'uso di "certum", pur se con sfumature molto più tenui e praticamente insignificanti ai fini pratici[89]; sotto il profilo `numerico' poi l'utilizzo della formula "ad certum tempus" ricorre soltanto un'altra volta (in forma non-pura) nel Can. 554 per il Vicario foraneo e "ad tempus determinatum" é usato solo tre volte (Cann. 153 [[section]]2; 193 [[section]]2; 538 [[section]]1); `ricorrenze' testuali di questa entità non sono affatto sufficienti a decidere per un valore tecnico affidabile.
Allo stesso modo varia all'interno del CIC 83 anche la tipologia delle formule adottate per indicare, forse, la stessa realtà di "tempo determinato": il Can. 520 infatti, per la convenzione di affidamento della parrocchia ai Religiosi[90], adotta la formula "ad certum prædefinitum tempus" mentre il Can. 513 [[section]]1 per il Consiglio pastorale diocesano usa, per lo stesso scopo, "ad tempus". Che nell'arco di soli dieci canoni, redatti dallo stesso Coetus Studii e rivisti dalla stessa Commissione, si utilizzino tre formule così diverse, non può certo giovare ad attribuire un valore specifico ai termini utilizzati. Lo stesso Legislatore poi utilizza, sempre in ambito di nomine ad uffici ecclesiastici di non minore `riguardo' ed importanza quali la provvisione degli incarichi giudiziali, la formula univoca: "ad definitum tempus" (Can. 1422).
Ordinariamente gli autori recepiscono il termine "certum" nell'accezione di determinatezza, in ovvia(?) alternativa col tempus indefinitum della proposizione precedente; é nata così l'espressione tecnico-amministrativa "nomina ad certum tempus" o "a tempo determinato" per indicare la `novità' giuridica introdotta da questo canone. L'espressione indica così la forma di nomina del Parroco per un periodo prefissato dal diritto c.d. "complementare"[91] pari generalmente a sei anni[92].
Come dimostrato però, l'espressione certum tempus ha un valore indefinito: si riferisce, cioé, ad uno spazio di tempo non ulteriormente specificato; in questo modo accade che "certum tempus" e "tempus indefinitum" non sono logicamente antitetici o alternativi, pur lasciando intendere due concetti di durata non equivalenti.
La medesima stabilità nell'ufficio parrocale parrebbe quindi potersi concretizzare in due forme di temporaneità, distinte ma non contrapposte, delle quali una `minore' e l'altra `maggiore' rispecchiando, sorprendentemente, il tenore del Can. 454 [[section]] 2 del CIC 17 che prevedeva, appunto, due concretizzazioni dell'unica stabilitas[93].
Questa `conclusione', a prima vista corretta solo sintatticamente, potrebbe rivelarsi la vera `chiave di volta' nella corretta interpretazione del Canone nella propria sostanzialità.
4) La proposizione `correlata'.
"Tantum ... si id ab Episcoporum Conferentia, per decretum admissum fuerit". L'ultima proposizione dell'enunciato del Can. 522 si presenta come la `condizione' perché i Vescovi diocesani possano esercitare l'opzione appena indicata; l'affermazione infatti é retta dal "tantum si" che la sottomette sintatticamente e logicamente a quanto precede.
E' interessante notare, già a prima vista, come non si tratti di un esplicito mandato affidato alle Conferenze Episcopali perché provvedano autonomamente alla regolamentazione di tale eventualità; la forma passiva utilizzata dal canone vede infatti nella Conferenza Episcopale non un soggetto attivo di prim'ordine ma semplicemente un `complemento d'agente'; ciò rende non chiara la natura del rimando normativo proprio in ordine all'importanza da attribuirsi a questo tipo di decisione. Il principio di sussidiarietà, applicato altre volte con chiarezza sotto il profilo operativo e pastorale, pare qui non essere il criterio del rinvio alle Conferenze Episcopali. In effetti la complementarietà di questa proposizione e la sua subordinazione alla precedente (tantum si) ne rendono certamente secondario il ruolo: autore della scelta di nominare Parroci ad certum tempus é infatti il solo Vescovo diocesano... la Conferenza Episcopale deve soltanto `ammettere' questa possibilità[94].
Questa subordinazione funzionale pone però un ulteriore problema in ordine alla comprensione ed interpretazione della norma: qual'è la `natura' del rimando alla Conferenza Episcopale?
La formula "tantum si", per il proprio valore `irritante' (Cfr. Cann. 10; 39) ha indubbiamente un `peso' ad validitatem nell'articolazione del canone, ma altrettanto evidente non ne appare la portata poiché, ancora una volta, é possibile una doppia lettura della norma: restrittiva o procedurale.
Molti commentatori[95], sulla scia di una precomprensione `statica' del ruolo del Parroco, presentano il ricorso alla Conferenza Episcopale come vera e propria restrizione: una specie di soglia d'accesso, posta a tutela della straordinarietà della forma di nomina dei Parroci ad certum tempus, sottolineando l'intrinseca difficoltà di promulgazione di tale Decreto da parte della Conferenza Episcopale, che deve esprimersi con la maggioranza qualificata dei voti degli aventi diritto e sottoporre il Decreto medesimo alla recognitio della Sede Apostolica. Tale funzione `di sbarramento', che sarebbe stata evidente con una inversione delle proposizioni in esame[96], non pare tuttavia suffragabile dalle osservazioni strutturali intraprese. Il rimando, poi, alle regole interne di attuazione delle decisioni delle Conferenze Episcopali non può essere che procedurale: un semplice adempimento formale per disporre validamente in materia di propria competenza a norma del diritto universale... diversamente l'applicazione del principio di sussidiarietà si rivelerebbe capzioso e strumentale proprio nella stessa disposizione che lo esplicita operativamente (Can. 455).
In questa prospettiva va sottolineato come la gran parte delle Conferenze Episcopali della Chiesa latina si sia affrettata a discutere la questione, ottenere il voto favorevole dei propri membri e la recognitio della Sede Apostolica, promulgando il proprio Decreto già entro l'anno di promulgazione dello stesso Codice[97].
Considerando, inoltre, come venga riconosciuta ad una potestà non-legislativa, quale quella delle Conferenze Episcopali, la possibilità di introdurre una norma in aperta contraddizione con un millennio di pratica canonica incontestata (la perpetuitas di assegnazione del beneficium curatum) e contro la presunta mens legislatoris (espressa nella prima parte del canone) risulta ancora meno chiara la natura di tale intervento decisionale e la sua collocazione all'interno della struttura del canone stesso come elemento `complementare' nell'ultima di quattro proposizioni.
Constatando come ben tre proposizioni sulle quattro che compongono il canone diano adito, da un punto di vista logico-sintattico prima ancora che dottrinale, ad ambiguità di lettura e comprensione[98], pare di poter giustificatamente affermare che non ci sia stata nella sua elaborazione la profusione di particolari attenzioni, come avrebbe invece meritato una novità di questa portata, quanto piuttosto il semplice riscontro ad una necessità operativa: sostituire il Can. 454 del Codice Pio-Benedettino ormai non più compatibile con le disposizioni conciliari di CD 31.
Ciò non deve stupire, poiché più volte precisi `imperativi' del Concilio non sono stati accolti dal Codificatore nonostante la loro perentorietà... si veda, p. es. i `diritti di presentazione per i Parroci'[99].
7_ Una soluzione `doverosa' e legittima
Al termine di questa semplice ma emblematica `verifica' dei rapporti -presuntamente- `deduttivi' tra Concilio e Codice, attraverso l'esame della nascita di una nuova norma nell'Ordinamento canonico, é senza dubbio necessario, e possibile, prospettare un risultato interpretativo legittimamente raggiunto attraverso il cammino di `evoluzione' (pastorale e giuridica) della materia in oggetto.
Il percorso effettuato attraverso l'iter di codificazione del testo normativo partendo dalle disposizioni conciliari porta a concludere che:
1deg.) considerata la natura giuridica ("eo durante amoveri non potest") del concetto di stabilitas, già introdotta nel CIC 17 sotto la duplice forma di `inamovibilità' ed `amovibilità' e così perpetuata dal Codificatore;
2deg.) considerando che l'eventuale deroga alla prima parte del canone 522 riguarda la sola modalità di nomina e non il principio della stabilitas, che continua a valere comunque anche nel caso di nomine ad certum tempus;
3deg.) considerando che, quando le Conferenze Episcopali abbiano deliberato in materia ed ottenuto la recognitio della Sede Apostolica, la nomina a tempo determinato dei Parroci é `Legge complementare' per tutto il loro territorio senza limitazione di applicabilità;
4deg.) esistendo un'interpretazione `autoritativa'[100] costante e stabile nell'indicare un tempo di sei anni come periodo di nomina che risponde al requisito della stabilitas;
7deg.) considerando anche l'opinione di un autorevole detrattore della temporaneità delle nomine secondo cui bisogna riconoscere che non appaiono disponibili molti strumenti giuridici per urgere la natura eccezionale della facoltà di nominare Parroci ad tempus determinatum[101],
la nomina dei Parroci ad certum tempus va considerata senza dubbio come `UNA' modalità di nomina del tutto equivalente, sul piano formale, alla nomina ad tempus indeterminatum; sul piano sostanziale va invece ritenuta `LA' modalità ordinaria di nomina, in quanto l'unica corrispondente alla volontà esplicita del Vaticano II ed alla realtà pastorale della Chiesa attuale.
8_Conclusione
Lo studio della nascita della nuova norma del canone 522 ha permesso di entrare nel vivo del rapporto Concilio-Codice seguendo passo passo la vicenda di una problematica ancora attuale in ambito pastorale; il percorso intrapreso ha permesso di sottoporre a prova concreta i presupposti dottrinali e sistematici enunciati dal magistero pontificio nella Costituzione di promulgazione del Codice, evidenziandone la portata `idealistica' più che programmatica e metodologica.
La prova dei fatti ha mostrato chiaramente in effetti come il "Concilium dixit" non sia mai apparso, in questo canone almeno, come criterio di elaborazione normativa; allo stesso tempo l'unico elemento comune alla fonte `dichiarata' di CD 31 risulta essere una semplice assonanza terminologica... il principio quindi a Concilio ad Codicem non risulta verificato con evidenza.
Come sciogliere, dunque, la tensione tra fatti e principi quando la polarità risulti così marcata? Quale risalto dare a questi casi di palese incorrispondenza dispositiva di alcune norme `puntuali' rispetto alla generalità del rapporto in questione?
Senza dubbio la soluzione deve rispettare le `regole' generali ed i criteri dichiarati dal magistero: la propria mens Legislatoris é quella che esplicita la logica di fondo cui l'intero sistema normativo deve assoggettarsi, in primis, la `cornice' ecclesiologica conciliare; a questa stessa logica devono essere ricondotte anche le `tensioni dispositive' eventualmente derivanti dalla particolare complessità (storica) di qualche materia o istituto giuridico. Questo tuttavia pone un ulteriore problema: qual é il rapporto dispositivo tra le statuizioni espresse dal Concilio attraverso i propri Decreti e le norme `recepite' nel CIC? Il Vaticano II ha, cioè, fornito solamente il palinsesto ecclesiologico del CIC o voleva trasmettergli anche precise disposizioni normative da `integrare' nel nuovo Codice canonico?
La metodologia applicata per questa `esemplificazione' pare più che adeguata a far emergere anche in altri casi gli elementi ermeneutici da considerarsi per attuare una corretta lettura ed interpretazione del `Codice del Concilio'.
Per una buona lettura `pastorale' del CIC é necessario conoscere il progresso della materia e della norma perché l'interpretazione non diventi -tragicamente- `evolutiva'.