LUCA FORMENTON
GIANNI GALASSI
A N N I L U C E FOTOGRAFIE
1969-1999
Milano,
Galleria
Arteutopia - 10/28 ottobre 2006
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IN DUE SULLA STRADA
di Emanuele Giordana -
Agenzia
Lettera 22
Se ci si ferma a
riflettere, mentre si sfoglia una qualsiasi rivista dal parrucchiere o dal
dentista, si ha l’impressione,
di questi tempi, che ci sia una discreta confusione tra le immagini
pubblicitarie e quelle legate alla cronaca. Un po’ perché la cronaca
entra spesso nella pubblicità, un po’ perché la pubblicità, o meglio
la cura della foto pubblicitaria, è entrata nella cronaca. Così, se non
fosse per la reclame delle scarpe o dell’orologio stampata da una parte
(e qualche volta neppure c’è), il rischio del nostro sfoglio distratto
è che si finisca per assorbire, anziché informazione, una bella dose di
confusione. Anche perché una marca può sembrare un titolo e un titolo
una marca, e quel marine, le cui pieghe di una camicia così
artisticamente sudata rimandano a curatissime pince,
potrebbe essere il testimonial di una bibita. Mentre la bottiglia di una bibita
può diventare una molotov scagliata, anziché contro la vetrina di
un’ambasciata, nel mondo virtuale dell’advertising.
Col
lavoro che faccio tutti i giorni - scegliere servizi da piazzare a questo
o quel giornale - finisco anch’io per vedere un mucchio di immagini
senza guardarle. Badando più alle esigenze del committente che non al
messaggio che un fotogramma, non meno di un articolo di settanta righe, può
trasmettere con la sua capacità unica di cogliere quell’attimo, quella
sensazione, quell’umore, quella rabbia. Se la foto è di quelle buone,
restituirà la medesima potenza per dieci, trenta, cento anni. Anni luce
forse.
Ma
le foto di oggi, non tutte certamente, sono prodotti da catalogo di
vendita più che storie zippate nel secco e inesorabile clic del reporter.
Sono come quelle tende a corredo che devono incorniciare il pezzo in quella
luce, con quella sfumatura, con quei rimandi che devono compiere il
piccolo miracolo di stare bene assieme con la didascalia, il titolo, la
firma in palchetto e la gabbia grafica d’autore. Una volta non era così.
E non perché le cose di una volta siano migliori o più affascinanti. O
perché il digitale valga meno della pellicola. E’ che negli anni
Sessanta-Settanta diventava storia della fotografia italiana il
fotogiornalismo, che trionfava, raccontando quegli anni nudi e crudi, nel
bianco e nero di Epoca o di Paese
sera.
Quella
era anche una stagione in cui la macchina fotografica girava tra le mani
di diciottenni-ventenni inquieti che passavano ore a discutere se
la Nikkormat
fosse meglio della Pentax o che, meno fortunati, si lustravano gli occhi
con qualche Zeiss Ikon di papà, magari senza reflex. Una passione che forse, inconsapevolmente, si coniugava agli esperimenti di
grandi professionisti – mi corre l’obbligo di citare Mario Dondero –
che invece le foto le facevano per lavoro. Ma anche quei ragazzi inquieti
le facevano in un certo senso per lavoro. Anche perché la loro
inquietudine si coniugava alla strada, a un bisogno irrefrenabile di
macinare chilometri, di marcare visti sul passaporto, di affittare macchine
col pieno di “benzina ridente”, disposte a coprire d’un soffio
Milano-Istanbul nello stesso lento, ma inquieto tempo dell’Orient
Express. La loro macchina fotografica, più o meno corredata d’obiettivi
e filtri, serviva a documentare tutto ciò. Perché sì, negli anni
Settanta c’era anche un forte bisogno di “documentare” o, se
preferite, di raccontare. E di raccontare, non già il week-end fuori
porta o i primi timidi passi del nipotino, ma l’angoscia sociale, gli
orizzonti senza spessore, le nuvole infinite sui cieli d’America o i
corpi smunti eppure pieni di energia dei sadhu di Benares.
Gianni
Galassi e Luca Formenton hanno
condiviso quell’inquietudine seppur, come ognuno di noi, battendo strade
diverse. Cercando un orizzonte che era molto personale ma che, proprio
grazie alla pellicola, si poteva poi condividere bevendo bianco spruzzato
o fumando canne in qualche appartamento milanese al ritorno
dall’avventura. E quella maledizione se la son portata dietro e fuori
dagli anni Settanta. Come un marchio indelebile il cui segno forse
riconosceremmo anche quando scattassero adesso (e certo l’hanno fatto) i
timidi passi del giovane nipotino.
Fu
un tempo epico? Chi può
dirlo. Guardando le loro foto sembra di si. A distanza d’anni questi
scatti di gioventù sanno raccontare ancora oggi, a trent’anni di distanza,
le loro storie: un’Italia in via di ridefinizione, lo scomposto melting
pot americano, la tensione tra l’Occidente e il Levante che solo si può
comprendere varcando i cancelli della Sublime Porta. Raccontano, lo
vogliano o meno, la storia di una generazione. Sulla strada e con la
macchina fotografica come taccuino. Fanno luce su quegli anni. Anni luce
appunto.
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UN'IMPROVVISA
ACCELERAZIONE
di Roberto Mutti
Ogni tanto nella storia avviene qualcosa di strano e sorprendente:
un’improvvisa accelerazione, un brusco scarto rispetto al passato,
un’energia che si sprigiona e regala a qualcuno la possibilità di
lasciare un segno. Negli anni Settanta questa sorte è toccata a un’intera
generazione europea, la prima da chissà quanto tempo a non aver combattuto
una guerra, la prima da sempre ad aver assaggiato il gusto di un diffuso
benessere, quello di una società che si lasciava alle spalle la civiltà
contadina per entrare con un entusiasmo perfino eccessivo in quella
industriale.
Nel generale entusiasmo che sembrava ed era contagioso, non mancarono le
voci del dissenso espresso però da personaggi isolati come John Osborne e
gli autori “arrabbiati” in Inghilterra, filosofi fuori del coro come
Jean Paul Sartre in Francia, scrittori anomali come Luciano Bianciardi in
Italia come anche da quel mix costituito dalla poesia di Allen Ginsberg,
dalla musica di Dizzy Gillespie e dal teatro del Living che ci arrivava
dall’America. Poi, improvvisamente una benefica inquietudine attraversò
tutti. Il linguaggio intero ne fu stravolto: si arrivò perfino a
inflazionare il termine “libertà” relegando di conseguenza
“tradizione” e “autorità” al gergo usato solo dagli inguaribili
nostalgici del tempo che fu. Ma cambiò anche il linguaggio dei gesti, dei
comportamenti, del modo di vestire: la fotografia, il cinema e la musica
furono le espressioni con cui questa inquietudine trovò modo di esprimersi,
tanto che ancora oggi sanno trasmettere il sapore di quelle lontane
emozioni.
Gianni Galassi e Luca Formenton erano, come i moltissimi che avevano letto
Hemingway e Kerouac, affascinati dai viaggi e dalla voglia di raccontarli
usando una reflex e una bella scorta di pellicole in bianconero. Basta
vederle oggi, queste fotografie – quelle fatte negli anni Settanta ma
anche quelle scattate alla fine dei Novanta – per capire la loro
straordinaria forza evocativa: di questo bisognerebbe parlare, senza perdere
molto tempo a discutere se sia meglio lavorare con le macchine di un tempo o
con le digitali, se sia più rassicurante il passato o inquietante il
futuro. Colpisce la sintonia che accomuna i due autori, quando si esprimono
da autentici street photographers
sempre alla ricerca di composizioni rigorose ma non estetizzanti,
disponibili a lasciarsi sorprendere, desiderosi di
indagare oltre l’immediatezza. Gianni Galassi ama i contrasti e li
sottolinea costantemente: la struttura delle montagne russe che si disegna
sul cielo sembra quella di un gasometro, la perfetta simmetria fra l’uomo
seduto su un marciapiede e il bidone che gli sta accanto allude a una
misteriosa metafora dell’esistenza, la casa galleggiante appare improvvisa
nella sua luminosa serenità mentre la sala d’attesa immersa nel buio su
cui lampeggia la scritta “Next boat” ha un che di inquietante. Galassi,
talvolta, gioca con le ombre da cui fa emergere una stazione ferroviaria,
una troupe cinematografica, una manifestazione politica o Gerry Mulligan con
il suo luccicante sax baritono; in altri casi si sofferma sui particolari
come la grande freccia bianca che indica un piccolo posto dove si vende cibo
messicano o il segno delle zampe dei gabbiani sulla spiaggia che trasforma
in grafismi. E che conosca bene la storia della fotografia e dell’arte lo
si capisce in quei bagnanti sulla spiaggia ripresi di spalle come in una
celebre immagine di Cartier-Bresson, in quel muro con le ombre che sembra
una tela di sacco di Burri, da in quella splendida ripresa frontale di un
edificio con davanti un’automobile sui cavalletti e senza ruote che non
avrebbe forse mai fatto se non avesse avuto in testa le immagini di Walker
Evans.
Di Luca Formenton colpisce di primo acchito la cura per la composizione e la
capacità di inserire la figura umana all’interno dello spazio urbano o
naturale. La si trova nella
pregevolissima immagine scattata a L’Avana dove un
gruppo di ragazzi gioca in uno spiazzo dominato dall’imponente
facciata di una casa le cui finestre sembrano innalzarsi fino al cielo. La
si ritrova nelle riprese dall’alto di strade indiane dove uomini,
biciclette, automobili e carri si intrecciano, mescolandosi come fossero
guidati dai fili di una logica sottintesa. Formenton ha uno spiccato senso
della teatralità ed è per questa ragione che le sue immagini alludono
sempre a una storia: verrebbe voglia di capire chi è quell’uomo vestito
di bianco che si staglia sulla superficie vissuta di un muro, che cosa si
stanno dicendo quei due anziani che a Londra maneggiano una Leica, che film
stanno per proiettare in quel cinema di Calcutta, dove vanno quelle persone
che si aggirano nelle strade di New York. Ma poi il fotografo sa
sorprendere, quando fa emergere dal nulla una persona che, nel puro stile
del teatro dell’assurdo, compare in scena avanzando su un carrello, che
immaginiamo cigolante, sui binari di una ferrovia che attraversa un
paesaggio desertico sudanese.
Le immagini di Gianni Galassi e Luca Formenton sanno mantenere invariato il
loro fascino che consiste nell’aiutarci a comprendere meglio il mondo, a
evocare il passato, a gustare nella sua complessità il presente.
LUCA
FORMENTON E
GIANNI GALASSI NEL 1972
PHOTO
BY DAVIDE DEL BOCA
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