Luigi Lucheni (o Luccheni), che di solito viene liquidato solo con la definizione
di "anarchico italiano". Le pochissime biografie valide di Elisabetta danno
qualche dato in più sull'uomo che cent'anni fa la assassinò a Ginevra, ma in genere si
limitano al periodo immediatamente precedente o posteriore al fattaccio che gli diede
esecrabile fama mondiale. E forse Lucheni non merita più spazio, perché la sua decisione
di uccidere Elisabetta fu frutto soltanto della fatalità. Il suo non fu un assassinio
mirato come quello di Bresci, che due anni dopo uccise a Monza il re d'Italia Umberto I.
Lucheni uccise Elisabetta solo perché lei si trovò sulla sua strada ed era un
personaggio abbastanza ricco e famoso da assicurargli notorietà mondiale.
Un po' di confusione sulle sue origini deriva anche dal
fatto che fu concepito in un lembo d'Emilia incuneato tra Liguria e Toscana. Dei genitori,
l'unica conosciuta la madre Luigia Lacchini di Albareto (Parma), che faceva la
bracciante o la serva presso una ricca famiglia locale. Ingravidata da qualcuno del posto,
la Lacchini si trasferì a Parigi per la vergogna e qui diede alla luce Luigi nel gennaio
1873. Per calcolo della madre o per errore di trascrizione, il cognome di Luigi divenne
Lucheni (o Luccheni), ma per l'Ambasciata d'Italia risultò comunque figlio d'ignoti. La
Lacchini lasciò l'infante in un orfanotrofio parigino e si trasferì in America. Qui si
rifece una vita sposandosi con un barista di San Francisco e dimenticando completamente il
figlio italiano. Per interessamento di ignoti (il padre?), il
piccolo Luigi venne poi richiamato nella sua provincia di origine, dove crebbe prima in un
orfanotrofio e poi presso alcune famiglie della zona, ricevendo pare una buona educazione.
Dopo aver lavorato (poco più che bambino!) alla costruzione della linea ferroviaria
Parma-La Spezia, Luigi iniziò a girare per l'Europa e a lavorare qui e là. Arruolato
nell'esercito italiano, partecipò con onore all'avventura coloniale in Africa orientale.
Rientrato in Italia, rimase per un certo periodo come attendente al servizio del suo
capitano, il principe Raniero de Vera d'Aragona. Lasciata Napoli per contrasti col suo
datore di lavoro (al quale e alla cui moglie rimase sempre un po' affezionato, tanto da
scrivere loro anche dal carcere ginevrino), approdò a Losanna nella primavera del 1898 e
qui, frequentando gruppi anarchici, sviluppò sempre di più il suo odio verso i grandi
della Terra. Pare che, oltre le palesi ingiustizie sociali dell'epoca, a questo odio non
fosse estranea la sua condizione di trovatello. Il suo motto
era "Chi non lavora non mangia". E' quasi certo che la decisione di Lucheni di
uccidere un grande della Terra (Umberto I sarebbe forse stato il preferito, ma era per lui
irraggiungibile) sia stata del tutto individuale. Sicuramente la scelta della vittima non
fu dettata da comunanza con l'irredentismo trentino o triestino e neppure con certo
atavico odio italiano verso l'Austria, tanto che Elisabetta fu un ripiego dell'ultima ora.
La vittima designata era il duca d'Orleans, pretendente al trono di Francia, che in quei
giorni avrebbe dovuto trovarsi a Ginevra. La pochezza dei mezzi a disposizione di Lucheni
e l'individualità del suo atto sono dimostrate anche dall'arma del delitto: una lesina da
lui dotata di manico di legno. Un'arma da fuoco gli avrebbe ovviamente facilitato la sua
"missione", tanto più che un personaggio come quello a cui lui mirava sarebbe
certamente stato munito di scorta. Mancando a Ginevra il duca
d'Orleans e saputo dai giornali che vi era invece Elisabetta (in incognito!), la
"missione" di Lucheni fu resa infinitamente più facile dalla personalità della
vittima di ripiego, che proprio quel giorno non aveva scorta armata (malgrado gli
ammonimenti del marito). Colpire una donna di sessant'anni, malata nel corpo e nello
spirito e le cui uniche armi di difesa erano un parasole e un ventaglio, fu facilissimo
per Lucheni verso le 13,30 del 10 settembre 1898. Paradossalmente, Lucheni fece un favore
a Elisabetta, perché le diede quel genere di morte a cui lei ormai anelava: improvvisa,
senza soffrire, lontano dai suoi cari per non angosciarli e al cospetto della natura che
lei tanto amava. La lama di Lucheni permise a Elisabetta di "volar via da questo
mondo come un uccello, come un filo di fumo" per dirla con le sue stesse parole. E
ancor più paradossalmente, Elisabetta avrebbe perdonato Lucheni, come dicono anche il suo
primo biografo, il conte austriaco Egon Corti, e la regina Elisabetta di Romania,
anch'essa (come Sissi) poetessa. Sissi e Lucheni non avevano nulla in comune - a parte
quel tipo di nevrosi definito motomania -, ma senz'altro erano due anime di fine secolo in
gran pena.
Lucheni fu condannato all'ergastolo dal tribunale di Ginevra. La sua
richiesta di venir giudicato a Lucerna, dove esisteva ancora la pena di morte, non fu
accolta. Non mostrò mai pentimento per il suo delitto e anzi al processo se ne vantò con
toni trionfalistici. Alla lettura della condanna, gridò "Viva l'anarchia! Morte
all'aristocrazia!". Fu in genere un condannato modello. Dopo la vampata di notorietà
seguita al delitto e al processo, ritornò nell'ombra e pochi si ricordarono di lui quando
nel 1910 pose fine ai suoi giorni.
Povera Sissi, povero Lucheni! Lei diventata per motivi non
storici il personaggio storico femminile più famoso al mondo e la sua personalità
travisata oltre ogni limite nell'immaginario collettivo. Lui rimasto semplicemente
un "anarchico italiano". Il suo gesto non è servito a nulla e dopo di esso
migliaia e migliaia di persone hanno continuato bellamente (sotto ogni bandiera) a
mangiare senza lavorare (o facendo finta di farlo). Oltretutto, Elisabetta - pur avendo i
mezzi per farlo a bizzeffe - mangiava come un uccellino.
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