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Di Giuseppe Serpagli
 
Luigi Lucheni (o Luccheni), che di solito viene liquidato solo con la definizione di "anarchico italiano". Le pochissime biografie valide di Elisabetta danno qualche dato in più sull'uomo che cent'anni fa la assassinò a Ginevra, ma in genere si limitano al periodo immediatamente precedente o posteriore al fattaccio che gli diede esecrabile fama mondiale. E forse Lucheni non merita più spazio, perché la sua decisione di uccidere Elisabetta fu frutto soltanto della fatalità. Il suo non fu un assassinio mirato come quello di Bresci, che due anni dopo uccise a Monza il re d'Italia Umberto I. Lucheni uccise Elisabetta solo perché lei si trovò sulla sua strada ed era un personaggio abbastanza ricco e famoso da assicurargli notorietà mondiale.

   Un po' di confusione sulle sue origini deriva anche dal fatto che fu concepito in un lembo d'Emilia incuneato tra Liguria e Toscana. Dei genitori, l'unica conosciuta‚ la madre Luigia Lacchini di Albareto (Parma), che faceva la bracciante o la serva presso una ricca famiglia locale. Ingravidata da qualcuno del posto, la Lacchini si trasferì a Parigi per la vergogna e qui diede alla luce Luigi nel gennaio 1873. Per calcolo della madre o per errore di trascrizione, il cognome di Luigi divenne Lucheni (o Luccheni), ma per l'Ambasciata d'Italia risultò comunque figlio d'ignoti. La Lacchini lasciò l'infante in un orfanotrofio parigino e si trasferì in America. Qui si rifece una vita sposandosi con un barista di San Francisco e dimenticando completamente il figlio italiano. Per interessamento di ignoti (il padre?), il piccolo Luigi venne poi richiamato nella sua provincia di origine, dove crebbe prima in un orfanotrofio e poi presso alcune famiglie della zona, ricevendo pare una buona educazione. Dopo aver lavorato (poco più che bambino!) alla costruzione della linea ferroviaria Parma-La Spezia, Luigi iniziò a girare per l'Europa e a lavorare qui e là. Arruolato nell'esercito italiano, partecipò con onore all'avventura coloniale in Africa orientale. Rientrato in Italia, rimase per un certo periodo come attendente al servizio del suo capitano, il principe Raniero de Vera d'Aragona. Lasciata Napoli per contrasti col suo datore di lavoro (al quale e alla cui moglie rimase sempre un po' affezionato, tanto da scrivere loro anche dal carcere ginevrino), approdò a Losanna nella primavera del 1898 e qui, frequentando gruppi anarchici, sviluppò sempre di più il suo odio verso i grandi della Terra. Pare che, oltre le palesi ingiustizie sociali dell'epoca, a questo odio non fosse estranea la sua condizione di trovatello. Il suo motto era "Chi non lavora non mangia". E' quasi certo che la decisione di Lucheni di uccidere un grande della Terra (Umberto I sarebbe forse stato il preferito, ma era per lui irraggiungibile) sia stata del tutto individuale. Sicuramente la scelta della vittima non fu dettata da comunanza con l'irredentismo trentino o triestino e neppure con certo atavico odio italiano verso l'Austria, tanto che Elisabetta fu un ripiego dell'ultima ora. La vittima designata era il duca d'Orleans, pretendente al trono di Francia, che in quei giorni avrebbe dovuto trovarsi a Ginevra. La pochezza dei mezzi a disposizione di Lucheni e l'individualità del suo atto sono dimostrate anche dall'arma del delitto: una lesina da lui dotata di manico di legno. Un'arma da fuoco gli avrebbe ovviamente facilitato la sua "missione", tanto più che un personaggio come quello a cui lui mirava sarebbe certamente stato munito di scorta. Mancando a Ginevra il duca d'Orleans e saputo dai giornali che vi era invece Elisabetta (in incognito!), la "missione" di Lucheni fu resa infinitamente più facile dalla personalità della vittima di ripiego, che proprio quel giorno non aveva scorta armata (malgrado gli ammonimenti del marito). Colpire una donna di sessant'anni, malata nel corpo e nello spirito e le cui uniche armi di difesa erano un parasole e un ventaglio, fu facilissimo per Lucheni verso le 13,30 del 10 settembre 1898. Paradossalmente, Lucheni fece un favore a Elisabetta, perché le diede quel genere di morte a cui lei ormai anelava: improvvisa, senza soffrire, lontano dai suoi cari per non angosciarli e al cospetto della natura che lei tanto amava. La lama di Lucheni permise a Elisabetta di "volar via da questo mondo come un uccello, come un filo di fumo" per dirla con le sue stesse parole. E ancor più paradossalmente, Elisabetta avrebbe perdonato Lucheni, come dicono anche il suo primo biografo, il conte austriaco Egon Corti, e la regina Elisabetta di Romania, anch'essa (come Sissi) poetessa. Sissi e Lucheni non avevano nulla in comune - a parte quel tipo di nevrosi definito motomania -, ma senz'altro erano due anime di fine secolo in gran pena.
Lucheni fu condannato all'ergastolo dal tribunale di Ginevra. La sua richiesta di venir giudicato a Lucerna, dove esisteva ancora la pena di morte, non fu accolta. Non mostrò mai pentimento per il suo delitto e anzi al processo se ne vantò con toni trionfalistici. Alla lettura della condanna, gridò "Viva l'anarchia! Morte all'aristocrazia!". Fu in genere un condannato modello. Dopo la vampata di notorietà seguita al delitto e al processo, ritornò nell'ombra e pochi si ricordarono di lui quando nel 1910 pose fine ai suoi giorni.
Povera Sissi, povero Lucheni! Lei‚ diventata per motivi non storici il personaggio storico femminile più famoso al mondo e la sua personalità‚ travisata oltre ogni limite nell'immaginario collettivo. Lui‚ rimasto semplicemente un "anarchico italiano". Il suo gesto non è servito a nulla e dopo di esso migliaia e migliaia di persone hanno continuato bellamente (sotto ogni bandiera) a mangiare senza lavorare (o facendo finta di farlo). Oltretutto, Elisabetta - pur avendo i mezzi per farlo a bizzeffe - mangiava come un uccellino.


Giuseppe Serpagli: www.geocities.com/bard842

 
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