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Povera Italia.

E ora il dilemma: Che fare?

di Marco Baldi (12/10/2002)

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C’era una volta la grande Italia del pallone, tradizioni tante s’è sempre detto, vittorie parecchie, se si parla di club, da accontentarsi, niente più, se il mirino si sposta sulla sempre meno amata Nazionale, con l’ultimo trionfo mondiale ormai smarritosi in un tempo lontano di ricordi sbiaditi, ma sempre e comunque inesauribile fucina di grandi e piccoli campioni, geni sportivi italiani doc che andavano a far vincere e volare le grandi società, con l’aggiunta sapiente di (pochi) stranieri dai piedi fatati.
C’era una volta, dicevamo, e la domanda sorge allora spontanea: c’è ancora? Sentenza Bosman, scriteriate follie presidenziali con relativa (grave) crisi economica, e generale livellamento tecnico europeo, hanno inflitto colpi numerosi e duri da reggere all’Italia pallonara, scivolata nell’ultimo lustro in stenti e miserie che raramente avevano visto la luce in passato.
Tre anni senza una finale europea, gli ultimi due addirittura senza raggiungere neppure un quarto, soldi che nel giro di pochi anni dalla grande abbondanza sono passati all’enorme depressione, stranieri sempre di più e sempre più brocchi, con quei pochi bravi, un tempo abbagliati dai fari di casa nostra, ormai attirati più da Spagna, Inghilterra, addirittura Germania, sicuri di trovare stipendi, magari meno esosi, ma regolarmente pagati, ed ambizioni suffragate dai fatti. Queste prove e conseguenze della crisi profonda dell’italico calcio, evidente almeno quest’anno, inutile negarlo, il parziale tentativo di tornare ai fasti di un tempo; compito arduo, quasi impossibile, ma mai quanto quello che ci aspetta nel comprendere le complesse ed incomprensibili elucubrazioni trapattoniane, arrivate a definire "buonissima partita" la disfatta in terra gallese: perché vuol solamente dire ingannare tutti, e prima di tutto la propria intelligenza, chiamare buonissima una partita in cui vedi i tuoi undici vagare smarriti per il campo, senza sapere cosa fare, nella confusione più totale, come già successo numerose, fin troppe volte in passato, durante la gestione del Trap; perché palla lunga e pedalare non è esattamente quello che si suol dire l’espressione di un bel gioco, e nemmeno di un rigoroso gioco all’italiana; perché togliere Di Biagio, l’unico in grado di dare inventiva e fantasia ad una squadra svuotata, per mettere Gattuso, tanta grinta, ma piedi mai precisi, e poi toglierlo dopo una ventina di minuti, è mossa scriteriata incomprensibile ai più; perché subire sempre dalla stessa parte, con Bellamy e Davies che imperversano come gli pare, e non far nulla di concreto per invertire la rotta, vuol dire tutto meno che saper leggere la gara.
Le attenuanti non mancano, ci mancherebbe: troppi infortuni; imperterrita iella che ormai segue in ogni dove il Trap nazionale peggio della famigerata nuvoletta fantozziana; assenza ormai pressoché totale di squadre materasso, da battere a occhi chiusi, eccezion fatta forse per Azeirbagian e poche altre; impossibilità naturale di dare un gioco brillante ad una qualsiasi Nazionale, con giocatori che si vedono sì e no qualche giorno l’anno. Ma non bastano né a giustificare il rapido declino di una squadra capace un paio d’anni fa, seppur nel grigiore del suo gioco, di sfiorare, e non agguantare per pochissimo, il trionfo europeo, né a cancellare le responsabilità del Trap, incapace di dare un’identità alla sua Nazionale, che vanno ad aggiungersi a quelli di giocatori, sempre più attaccati agli interessi miliardari del rispettive società, sempre meno alla Nazionale, e di una Federazione sempre più debole ed inadatta ad imporsi con forza a livello europeo ed a respingere senza mezzi termini le ormai eccessive e preponderanti pretese dei club.
Insomma, serve un cambiamento. Radicale. Non una strigliata e via, come dopo i mondiali, ma una vera e propria svolta tanto rapida e forte quanto lo è stato il declino della nazionale del Trap, perché sia capace di restituire vigore e voglia di lottare ad una squadra ed un ambiente depressi e parsi più di una volta incapaci di rialzarsi. Il tempo c’è, mancano quasi cinque mesi alla prossima partita di qualificazione europea, bisogna farlo fruttare. Parecchie le mosse da mettere in atto: 1) via Trapattoni, ormai (giustamente) sfiduciato da tutti, giocatori, pubblico, Federazione, al di là delle dichiarazioni di circostanza; 2) dentro un allenatore giovane, con i necessari attributi per imporsi in breve, ma non brevissimo, tempo (inutile aspettarsi miracoli), e con ancora stimoli e voglia di vincere da trasmettere a squadra e tifosi (Del Neri, Colomba, Prandelli, solo per qualche suggerimento da profani, o semi-tali, del mondo pallonaro); 3) attenti a riesumare Zoff o simili, con loro facile pronosticare un Trapattoni secondo; 4) la nazionale deve rispecchiare il campionato? sempre detto, mai fatto; maggiore attenzione quindi al modo di giocare dei club, che in fondo sono quelli che te li forniscono, i giocatori; 5) come conseguenza del precedente, migliore sfruttamento dei giocatori impiegati, inutile insistere su moduli che non si adattano a nessuno, meglio valutare di volta in volta peculiarità e difetti dei calciatori e puntare su quelli; 6) svolta epocale nelle convocazioni: basta priorità assoluta a sponsor, tradizioni e convinzioni personali dei ct, che a tanti fallimenti hanno portato (vedi Del Piero tra ’98 e 2001); largo ai più in forma ed a chi vuole veramente giocare per l’Italia (se qualcuno, tipo Vieri, tanto per non fare nomi, non ha voglia di affaticarsi più di tanto, se ne stiano pure a casa, non ne sentiremo la mancanza, invece di simulare con impressionante regolarità infortuni che, sorpresa sorpresa, li rivedono in campo dopo tre o quattro giorni svelti, pimpanti, entusiasti di vincere e sudare per i miliardi del club); 7) non sarebbe male neppure un rimpasto veloce e radicale dei vertici federali, sempre meno rappresentativi di tifosi e società che non li sopportano più, ma se sono già pressoché impossibili i punti precedenti, pensate un pò questo.