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Un' indagine sociologica
ci mostrerebbe forse come gran parte dei giovani arrivano ad
incontrarsi con la politica nazionale e spesso anche con quella
internazionale, il più delle volte durante gli ultimi
anni della scuola media superiore: o acquisendo da soli una certa
coscienza (non solo di classe), magari con l'ausilio dei principali
mezzi mediatici, o talvolta indirizzati da ciceroni più
anziani ,che lasciando comunque una certa libertà di movimento,
mostrano con occhi molto attenti le vie ancora percorribili nella
jungla delle ideologie sinistroidi. Le influenze (negative o positive poco importa) risultano provenire anche da parenti, amici o (come sopra) da esperti già militanti nel settore, facenti parte a gruppi (politici) organizzati come centri sociali, sezioni giovanili di partiti di destra o di sinistra. Ciò non pretende di essere un ammonimento o un rimprovero al modo in cui tutti noi ci avviamo o ci siamo avviati al discorso pubblico. Quello che sopra appare scritto è indifferente, non possiamo opporci al fatto che accada, e neanche avremmo motivo di volerlo fare. Anzi soltanto vivendo ,in determinati ambienti, determinate esperienze e facendo conoscenza di quella persona (o di quel gruppo), delle sue idee (non solo politiche) e dei suoi principi, un' individuo è capace di crearsi un ben preciso MODUS COGITANDI in fatto di politica. Né tanto meno credo che nessuno abbia interesse nel tentare di opporsi a questo coinvolgimento di eserciti di giovani nei riguardi della "cosa pubblica". Dopotutto ciascuno di noi è in grado di riflettere autonomamente ed è cosi libero di modificare il suo pensiero senza per questo essere tacciato di trasformismo. Hitler scrisse che "un uomo non dovrebbe interessarsi di politica prima di avere compiuto i trenta anni di età". Ci sembra un'esagerazione ed un'affermazione priva di fondamenti. Ci dobbiamo avviare alla politica (se ne siamo interessati) quando se ne avverte il bisogno, scegliendo (preferibilmente) uno schieramento che soddisfi i nostri bisogni. I partiti di massa sono nati per questo. Ma che succede quando la politica e la partecipazione che da essa ne deriva e che essa (per se stessa) richiede, finisce per valicare i confini stabiliti e ci coinvolge eccessivamente? Succede dal mio punto di vista, che finiamo prigionieri di un "totalitarismo". Quello stesso che noi creiamo e che ci impedisce di capire bene e nella sua interezza proprio quegli avvenimenti pubblici che per il tramite di esso pretendiamo di investigare. In sintesi: produciamo solo confusione. Così parlando di un tema "caro" in questi giorni, che è quello della guerra in Iraq, un compagno comunista ci dirà che essa è il frutto amaro della società capitalista ed imperialista, primeggiata dagli USA, in cui siamo stati gettati a vivere, finalizzata al possedimento di quel "dollaro nero" o petroldollaro che è appunto il greggio. Il nostro amico continuerebbe dicendo che stiamo assistendo allo scontro di una dittatura penosa (quella americana) ,che finge di mascherarsi da democrazia (ma evidentemente ci riesce poco e male) contro una dittatura palese (quella irachena) e più accettabile (rispetto ad altre nella zona medio ed estremo orientale), perché comunque tollerante, religiosamente parlando (AZIZ il vice di Hussein è Cristiano ???? che logica è?). Nulla di più sacrosanto (ad eccezione forse per l'ultima affermazione che appare esagerata.) A fare da contraltare ci ha pensato da quando aleggiava per l'aria vento di tempesta, il governo Berlusconi, con i suoi Se ed i suoi Ma, con le sue incertezze che hanno spinto i disegnatori de "La Repubblica" a commentare in una vignetta come "Scherati Si! Ma sempre e solo sotto la stessa banderuola" i gruppi intra ed extra parlamentari del premier italiano. Un qualunque filio-destrista direbbe che bisogna appoggiare una guerra "di liberazione" per salvaguardare i diritti del popolo iracheno non garantiti dall'attuale regime, e che bisogna ritenere legittima una guerra che legittima non è, ma che puo' apparire meno cruda se la si ritiene bismarkianamente una GUERRA PREVENTIVA, atta cioè a rimescolare, tramite rimaneggiamenti diplomatici, i ruoli per fare apparire l'Iraq non già l'aggredito ma l'aggressore e l' Usa la liberatrice dei popoli e la patria del liberalismo più intransigente (insieme del resto alla liberalissima Albione). Considerando che una parte del popolo iracheno resta ed è sempre stata dalla parte del Raìs, ed è normale che sia così se si pensa al fatto che un popolo normalmente fomenta il suo senso di nazione e lo spirito patriottico quando si trova attaccato in casa propria (Es la disfatta di Caporetto e la reazione italiana successiva), le motivazioni addotte dal presidente Bush jr. per portare avanti l'ipotesi di una guerra nelle settimane precedenti l'aggressione, appariranno a tutti davvero fuori luogo, e potrebbero invece essere legittimate (e a loro volta legittimare questo scontro) qualora fosse stato il popolo stesso dell'Iraq ad invitare le forze NATO ad intervenire per abbattere il regime. Salvo il caso forse per una sola delle motivazioni scatenanti, ovvero quella del reale o presunto possesso di Saddam di armi chimiche o comunque di distruzione di massa, il perché di questa guerra ancora non ci è dato di saperlo. L'accadimento che dovrebbe più indurre a riflettere (oltre ai volti dei marines come dei soldati di Saddam che combattono e muoiono quotidianamente) è questo sentire parlare ad ogni ora di sempre crescenti agitazioni popolari e studentesche, condotte da coloro che appoggiandosi a gruppi umanitari (Emergency o Amnesty Int.) od a gruppi politici organizzati (partiti, centri sociali) e ancora a forze sindacali, scendono in strada ogni giorno a dimostrazione del fatto che la guerra esplosa nella scorsa settimana è fortemente impopolare non solo in Italia ma in ogni parte del mondo, contrariamente, mi sembra, ai dati pubblicati nella Repubblica di mercoledì 19 marzo, in base ai quali addirittura il 71% dell'opinione pubblica americana è favorevole a questa guerra. Ciò è sconcertante se pensiamo al fatto che il 71 per cento di una popolazione vasta come quella americana equivale approssimativamente alla popolazione dell' Unione Europea. Dunque è come se da un lato vi fosse un' Europa contraria alla guerra (sempre secondo Repubblica fatta eccezione per il 38% degli Inglesi), ed una invece favorevolissima che anzi ha già lanciato l'offensiva, pur non contando di trovarsi in minoranza. Tralasciando i dati le stime e le parole, che contano sempre meno dei fatti (basti guardare agli Usa in guerra nonostante il veto del consiglio di sicurezza) e invece rivolgendoci alla realtà concreta, troviamo che torti e ragioni sono distribuiti tanto nelle azioni del Raìs, quanto in quelle del presidente Bush, e neanche ci deve riguardare chi ha sbagliato più o meno e nei confronti di chi. La guerra c'è e la si vede ogni giorno in televisione e la si legge sui giornali. Cosa resta da fare allora a chi questo conflitto non lo avrebbe voluto? Tacere e crocianamente considerare la guerra un cataclisma naturale che deve soltanto essere osservato e preferibilmente scansato cercando di sopravvivere? oppure è lecito scendere in piazza a mostrare il dissenso? Ovviamente è lecita la seconda risposta. Ovviamente è ciò che tutti stiamo facendo nelle città. Ovviamente se ne travisa il significato. Qui arriviamo al nocciolo della questione, e ci riallacciamo al discorso di cui sopra, in base al quale a mio parere, lasciarsi strumentalizzare dagli accadimenti politici e dalla propria fede per quanto fervida possa essere, in questo momento è cosa sbagliata. Accade così che per difendere il proprio colore dal nemico vampiro-comunista, o dallo spauracchio nero-fascista, si perda la vera essenza di tanto manifestare. Ritengo opportuno dire che un sentimento come la PACE, talvolta collegato a tanta tradizione socialista ed egalitarista (come la sinistra certamente è, o cerca di essere) dovrebbe essere considerato SUPER-PARTES e trovare d'accordo tutti gli schieramenti, indipendentemente dal loro colore politico, cosa che certamente non accade nella mia città, dove ogni pretesto per manifestare diviene subito un motivo in più per boicottare il governo attuale. Non si travisi il significato di ciò, credo soltanto che tutto dovrebbe avere un suo momento e un suo luogo. Ci dovrebbe essere il momento per manifestare il dissenso al governo Forza Italia (come di frequente c'è stato prima dell'inizio delle ostilità), come adesso si dovrebbe avvertire la necessità di formare una coalizione di Pacifismo puro e TOLLERANTE, soprattutto scevro da ogni pregiudizio politico. Soprattutto si eviterebbero gravi errori come quello commesso da alcuni filo-palestinesi durante una delle tante fiaccolate per la "pace" che si sono svolte a Palermo, quella di sabato 22 marzo. Il corteo lungo ed ordinato è stato solo disturbato da uno striscione che recitava "Stop all'occupazione, Intifada fino alla vittoria". Come ha commentato Marco Mascellino , presidente dell'associazione Italia-Israele, intervistato dal Giornale di Sicilia di lunedì 24 Marzo mi pare piuttosto preoccupante che delle persone che si definiscono pacifiste al contempo siano favorevoli alle violenze dell'intifada. Ancora: un volantino del PMLI capitatomi fra le mani, descrive una situazione di allarmismo, forse un po' esagerata, e richiede all'opinione pubblica d'opposizione la chiusura coatta delle basi di Sigonella e Birgi (quest'ultima fra l'altro non è una base americana ma facente parte delle strutture militari propriamente italiane), oppure l'abbattimento del "Regime del NeoDuce Berlusconi". La propaganda politica ovviamente rappresenta il massimo esempio di liberalismo comunicativo, ma credo inoltre che anche in questo secondo esempio i movimenti di sinistra stiano cercando di strumentalizzare (forse anche inconsapevolmente o per abitudine ) lo stato della situazione attuale, sperando magari di trarne profitto per il periodo successivo alla guerra, quando cioè si tornerà alla normale vita politica, con il governo e la consueta (frammentaria) opposizione. Non dimentichiamo inoltre che la sinistra attuale non è per nulla dissimile da quella che durante il governo D'Alema, autorizzò il bombardamento in Kosovo. Ed allora l'Italia prese interamente parte alle attività di guerra . |