In principio, vi furono
due correnti a scindere in due antitetiche frangie il neonato
filone hard rock: la prima, formatasi nel 1968, era rappresentata
dai Led Zeppelin, mentre la seconda dai GRAND FUNK RAILROAD,
grosso modo sempre intorno ai tardi anni '60.
Le proposte musicali dei due complessi erano assai difformi ed
in contrasto, eccetto che per il fattore dell'altissimo, spropositato
per i tempi, volume degli amplificatori: se il gruppo guidato
da Jimmy Page e Robert Plant era artefice di un modernissimo,
eccitante rock-blues, obliquo quanto articolato da un punto di
vista strettamente tecnico-compositivo, i Grand Funk di Mark
Farner, Don Brewer e Mel Schacher regalavano ai propri ammiratori
un "heavy blues" assai monotono e ruvido, con una naturale
tendenza (soprattutto da parte del chitarrista Farner) a lunghi,
estenuanti assoli dalla indiscutibile matrice blues, vertiginosamente
accelerati e (solo apparentemente) privi di qualsiasi fronzolo
virtuosistico.
L'antitesi a cui mi riferivo soprastantemente ha come epicentro
lo stile adottato dalle due bands: la prima, follemente attirata
da tutti i trucchi e bizzarrie che lo studio di registrazione
era in grado di offrire a quel tempo, ostentatori quanto mai
delle loro arroganti pretese virtuosistiche, autentici "manipolatori",
STREGONI-padroni di una formula musicale che non aveva precedenti
(basti ricordare, a tal proposito, la parte centrale insolitamente
psichedelica che complementa alla perfezione la spigolosita'
e la freneticita' di un brano come WHOLE LOTTA LOVE); i secondi,
al contrario, "portavoce" della nuova corrente "hard"
americana, decisamente meno maniacale (da un punto di vista sperimentale)
rispetto ai loro "cugini" britannici: in definitiva
la musica dei Grand Funk verteva principalmente sulla compattezza
sonora del trio FARNER (chitarra e voce solista), BREWER (batteria)
e SCHACHER (basso elettrico) e non aveva la stessa predisposizione
alla liberta' creativa dei Led Zeppelin, il cui concetto di arte
non avrebbe mai previsto il ripetersi di una loro precedente,
sconvolgente innovazione stilistica. Quanto le bizzarre direzione
artistiche erano il fiore all'occhiello (ed autentica ossessione)
di Page e soci, tanto era la semplicita' e l'ingenuita' nelle
grezze proposte musicali da parte del gruppo diretto da Mark
Farner.
I Led Zeppelin, gia' a partire dal 1968, furono i primi a "rivisitare"
completamente (ed anarchicamente) il concetto di "rock-blues"
allora vigente: innovatori quanto esibizionisti e arroganti musicisti,
gli Zeppelin portarono a compimento, nel giro di quei convulsi,
caoticissimi mesi, la formula DEFINITIVA di quel nuovo "verbo-rock"
che avrebbe portato il titolo di "ROCK DURO". L'intuizione
piu' debordante fu quella di alzare vertiginosamente i volumi
(fino al limite consentito... o forse... anche oltre ....!) pur
mantenendo chiara la derivazione musicale dei quattro musicisti,
tra i quali emergeva come compositore e "sperimentatore
feticista da studio" Jimmy Page, un virtuosissimo della
sei corde che fino a poco tempo prima aveva svolto (con immenso
successo) il ruolo di "session-man" in lungo e in largo
per tutta la Gran Bretagna, al servizio di molti nomi illustri
della scena britannica.
Nel 1968 fu lui a prelevare i morenti Yardbirds onde trasformali,
previa l'avvenuto ingresso di Robert Plant come cantante, John
Paul Jones in qualita' di bassista/organista e John "Bonzo"
Bonham (batteria e percussioni) in New Yardbirds; successivamente
(e definitivamente), Page ribattezzo' i New Yardbirds in LED
ZEPPELIN (su suggerimento di Keith Moon degli Who).
"A new star was born" - una nuova stella era nata.
Meno dotati da un punto
di vista tecnico, I Grand Funk Railroad si distinsero immediatamente,
oltre che per il folle volume dei loro concerti, per la "cieca"
aggressivita' e ruvidezza sonora con le quali si proponevano
al pubblico; tutti e tre i musicisti implicati nel "progetto-Grand-Funk"
erano in grado di prodursi in interminabili sessions, dilatando
le proprie composizioni da studio in lunghi "orgasmi strumentali",
spesso confinanti con la piu' prossima cacofonia, come dimostravano
i loro primissimi concerti (si disse che tra gli spettatori di
allora vi fu qualcuno visto uscire con le orecche sanguinanti....).
Dove i Led Zeppelin primeggiavano superbamente in eccentrici
quanto magnetici preziosismi strumentali, i Grand Funk Railroad
avrebbero puntato su un sound piu' diretto, viscerale, sorretto
da riff tellurici e devastanti, senza badare troppo all'eleganza
di ogni performance.
Cio' che contava era scaricare una rabbia che fosse capace di
condensarsi nei mega-watt prodotti dalla loro chitarra urlata
e strillante, spigolosa e sporca, supportata da una batteria
in perenne "stato bellico", quanto era l'acida cattiveria
violentatrice di Brewer alla batteria (la leggenda narra che
il batterista dei Grand Funk suonasse con le bacchette girate
al contrario, onde imprimere un battito piu' devastante sui propri
tamburi). In generale, una volta imbattutoci nelle forme di rappresentazioni
musicali dal tono quasi primitivo dei Grand Funk, si ha l'impressione
di un terremoto inarrestabile pronto a travolgerci ed a...."ucciderci"....
Una traccia come INTO THE SUN e' assai indicativa sull'energia
incontenibile e debordante "vomitata" sullo spettatore
di turno: il brano si apre con una lunga, ipnotica apertura "elettrico-blues",
sfociante conseguentemente in una minacciosa ritmica pseudo-funky
sulla quale irrompe l'inquieto e lancinante cantato di Farner;
INTO THE SUN si muove sui binari di un heavy-rock-blues sferzante
e contagioso, aperto alle piu' disparate forme improvvisative.
Infatti, nelle esecuzioni live, anziche' esaurirsi in dissolvenza
(come nella versione in studio) si assiste ad una breve pausa,
preannunciatrice del caos che di li' a pochi secondi si impossessera'
di un estasiato ed impaziente pubblico: l'accelerazione e' spaventosa,
la fine del mondo sembra vicina ma loro continuano a "stuprare"
le orecchie di pubblico indifeso; tanto, TROPPO e' il pathos
orgasmico-cacofonico lanciato dal palco sulla platea, gli accordi
non si riconoscono piu', la musica ridotta al suo stato piu'
rozzamente primitivo, il basso che pulsa come un animale in calore
pronto a sodomizzare la sua femmina, la batteria impertinente,
selvaggia e ruggente nell'accezione piu' estrema del termine.
Da un'immagine simile il lettore non potrebbe ricavare che una
sensazione di incapacita' (da parte dei Grand Funk) di sapersi
evolvere o di proporre originali soluzioni: niente di piu' falso!
A partire dal leggendario ON TIME (1969) i Grand Funk Railroad
avevano vissuto fasi alterne, sebbene contraddistinte da momenti
di creativita' assoluta. Esemplare fu SURVIVAL, quarta opera
in studio (e quinta in generale) da parte del gruppo proveniente
da Flint, Michigan.
Il sound globale si rivela piu' maturo ed eclettico rispetto
a quello proposto in altre pietre miliari dell'hard quali GRAND
FUNK (il celebre "red album") e CLOSER TO HOME (edito
nel 1970).
A completare il processo evolutivo-definitivo della band americana
e' proprio SURVIVAL. L'album, uscito nel 1971, presentava al
grande pubblico le capacita' in termini compositivi sempre in
crescita di Mark Farner, l'autore della maggior parte del materiale
proposto dai Grand Funk.
"Country Road", l'opener, non poteva meglio inaugurare
il primo capolavoro di Farner e Soci: gia' dai primi attacchi
ritmici (rozzi quanto efficaci) si intuisce l'appeal (a tratti
irresistibile ed irrefrenabile) del suddetto LP: voce lancinata
e sovracuta, ritmica pulsante e pedissequamente inquieta nelle
sue evoluzioni/accelerazioni, riff di chitarra sporchi sparati
a folle velocita' esecutiva; un perfetto esemplare di compattezza
ritmico-sonora. Segue "All you've got is Money", la
quale dopo una travolgente apertura di stampo "funk/blues"
si lascia "trasportare" in un ipnotico, avvolgente,
ostentato assolo a cui fanno da contrappunto le urla "primal-scream"
di Farner e Brewer, testimonianza, quest'ultima del senso di
anarchica liberta' intrinseca nella band: a tale ascolto, il
sottoscritto si immagina sperduto in una caverna, circondato
da anarchici uomini primitivi, dediti ai loro sgolati, incomprensibili
canti, supportati fedelmente da animali in calore fra loro e
sempre pronti ad inseguirsi, eroticamente, l'un con l'altro.
Suggestivo e straziante, brivido assoluto che viene tracciato
come un solco sulle nostre schiene.
"Comfort me", la terza traccia, e' una delle migliori
composizioni in assoluto di Farner, un ideale incrocio tra le
sonorita' grezze e taglienti del "sound-Funk" ed una
spiccata vena melodica, arricchita da cambi di tempo sincopati
che donano al brano un insolito pathos ed espressivita' esecutiva:
i toni sospesi tra drammatico e ritrovato senso di liberta' si
fondono egregiamente in questa superba ballata, e ne fanno uno
degli highlights di tutto l'album.
"Feelin' alright" chiude il lato A; si tratta di una
cover, essendo stata composta dall'ex-Traffic Dave Mason: un
rock-blues impreziosito da una sezione centrale nella quale spicca
il talento di Farner come chitarrista: in questo frangente non
e' la potenza il comune denominatore dei suoi celebri attacchi
furiosi alla chitarra, bensi' il gusto con il quale le note vengono
piazzate in tale contesto: i fraseggi sono avvincenti quanto
trascinanti e rendono praticamente perfetta l'esecuzione strumentale
da parte della band, ineditamente misurata e senza eccessi strumentali
a loro congeniali.
Il lato B si apre maestosamente con "I want freedom":
un imperioso intro di tastiere apre il varco alla devastante
batteria di Brewer sulla quale svettano le voci sdoppiate in
controcanto di Farner: la sua ugola raggiunge vertici stratosferici,
lancinante come mai prima d'ora: un'introduzione dai tratti fortemente
emotivi e strazianti: sembra quasi la voce di Farner sia sul
punto di commuoversi e di "cadere" in un pianto carico
di profondo pathos e richiesta di solenne liberta'. L'accento
conferito a "I want freedom" e' innegabilmente di stampo
gospel ed i lancinanti vocalizzi del chitarrista/cantante rendono
in pieno l'emotivita' interpretativa e l'"evocativita'"
di tale traccia.
"I can feel him in the morning" riprende il tema della
"solennita'" presente in "I want freedom",
solo con toni piu' pacati ma non meno emozionanti: si tratta
di una splendida ballata, con, come "sottofondo", strazianti
acuti da parte di una vocalista (che si tratti dello stesso Farner?...
questo non e' dato saperlo... a voi la risoluzione dell'enigma...):
il testo non tradisce l'epicita' del brano e lascia intuire le
pene sofferte per chissa' quale persona andata perduta e mai
piu' ritrovata. "Leggo" in questa traccia un messaggio
sottilmente etereo e sfuggente, che circonda, avvolge le note
di "I can feel him in the morning" di una non ben definita
aura mistico-onirica, che impregna la ballata di profondo pathos
e doloroso ma sostenuto dramma.
Infine, una debordante, "spiazzante", selvaggia rivisitazione
del classico "stoniano" "Gimme Shelter",
probabilmente il VERO capolavoro di questo storico caposaldo
del primo hardrock americano. Un torrente di note in delirio
scaraventarsi l'una addosso all'altra, senza il tempo di poter
meditare.
La voce, rabbiosa e vomitata, di Brewer e' perfetta in questo
ensemble di "violenza musicale"; la chitarra di Mark
Farner e' piu' stridente che mai, il basso sorregge e compensa
la batteria creando un "wall-of-sound" di rara potenza
e spietatezza, con un finale tra i piu' memorabili di tutta la
storia del Rock: una nebulosa sempre sul punto di scoppiare,
uno squarcio di magma eruttante con riffs che si contorcono e
basso e batteria completamente impazziti: gli acuti non sono
piu' acuti ma grida schizophreniche inter-sovrapporsi fra loro,
mentre la batteria sembra, solo in apparenza, seguire un proprio
anarchico percorso... L'apocalisse e' prossima a noi, la rabbia
non ancora del tutto sbollita, le nostre menti "contuse",
in ginocchio di fronte al "vulcano sonoro" prodotto
dal trio. Uno dei finali piu' suggestivi, roboanti e cataclismici
di sempre.
Raramente in una sola traccia si era udita una sinergia tecnico-esecutiva
cosi' fiammante e fuori da ogni immaginabile schema. Solo gli
Stooges con FUN HOUSE vi erano riusciti, un anno prima.
SURVIVAL e' testimonianza della veemenza strumentale di Farner-Brewer-Schacher,
ma anche, allo stesso tempo, di una verve creativa difficilmente
riscontrabile negli album successivi, capace di fondere ballate
con i piu' arcigni, monolitici riffs verso i quali abbiate mai
avuto il coraggio di imbattervi.
Parola di.... una mente
tellurica..... Questo
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