Elettroencefalogramma
piatto. Il disco e' finito, ed il Profeta del Nulla abbandona
la sala di registrazione per dissociarsi, una volta di piu',
da un Mondo, da un contesto che non lo puo' capire. Per ritornare,
il minuto successivo, dalla sua, certamente unica, sua amica:
una malsana, incontrollata e sfuggente pazzia, di cui lui ne
e' l'infallibile esecutore, il "killer" sempre pronto,
all'erta in un angolo troppo buio e troppo deserto, troppo sinistro
per essere battuto da normali terrestri. Cosi' io ho interpretato
il finale di "FUN HOUSE", che il sottoscritto non esita
a definire una delle produzioni piu' scioccanti avvenute nella
Storia del Rock. Ed e' proprio lui, IL PROFETA DEL NULLA, PROFETA
DI UNA REALTA' DISTORTA dall'uso massiccio di droghe, allucinogeni
(e chissà quant'altro ancora) che faranno di IGGY "L'IGUANA"
POP, il primo vero legittimo precursore di un rock nichilista
ed inneggiante all'autodistruzione, simbolo di un'anarchia musicale
ed ideologica assurdamente in anticipo sui tempi, e per questo
terribilmente anacronistica ed incomprensibile, all'epoca. Siamo
nel 1970, e gli STOOGES si sono formati da poco piu' di un anno.
Hanno alle loro spalle il loro disco d'esordio "THE STOOGES",
che gia' focalizza egregiamente il folle status di anarchia e
di stralunata schizophrenia di IGGY e Company. Brani "scomodi"
come NO FUN o I WANNA BE YOUR DOG rivelano le inarrivabili doti
di nichilista auto-distruttivo dell'iguana POP, il quale, per
sua stessa ammissione, si ispira molto eloquentemente ad un altro
grande "Principe della Trasgressivita'" di quel periodo,
il mito per antonomasia del Rock Maledetto, JIM MORRISON, il
quale, durante un concerto affascina talmente POP da farlo impazzire
di gioia, al punto da fargli prendere una decisione che gli cambiera'
la vita per sempre: IGGY vuole emulare il suo eroe dionisiaco,
ed anch'egli si cimentera' nella figura di performer oltraggioso.
Il disco pero' non ottiene alcun gradimento da parte di un pubblico
forse troppo intento a combattere con slogan pacifisti la guerra
nel Vietnam, un pubblico ingenuamente ignaro di cio' che accade
nei bassifondi cittadini, un degrado urbano che le canzoni dell'epoca
certo non ritraggono, a favore di temi piu' accomodanti e meno
azzardati. In poche succinte parole gli STOOGES ed in particolar
POP diverranno le icone post-summer-of-love di un movimento celebrante
il degrado morale e psichico della razza umana, auto-erigendosi
come "borderliners" di una Societa' votata al consumismo
ed all'estremo culto del benessere. Giunge il 1970 e tutti questi
temi sono egregiamente esposti in FUN HOUSE, opera seconda del
gruppo, il quale osera' ancor di piu' nell'alzare il tiro di
una pazzia musicale che proprio nei solchi del sopra-citato LP
tocchera' vertici impensabili per l'epoca. Le prime tre tracce
non sono altro che un antipasto, un timido assaggio del delitto
"sonoro-psichico" che si materializzera' nella seconda
parte dell'album. "DIRT", in un certo senso, anticipa
le atmosfere ai confini della realta' del LATO B ed a mio modesto
parere tale brano rappresenterebbe il vertice artistico dell'LP,
un blues distorto ed assolutamente colmo di magnetismo, con la
voce di Iggy finalmente degna protagonista, abilmente coadiuvata
dal disordinato ma efficacissimo chitarrismo di RON ASHETON,
forse uno dei chitarristi piu' sottovalutati della storia del
Rock (si tratta dopo tutto, del PRIMO VERO CHITARRISTA PRECURSORE
DEL PUNK MODERNO, mica poco, eh!). "DIRT" termina con
un senso di vuoto e di attesa che sfociera' bestialmente nella
gia' citata seconda parte di FUN HOUSE. Un attacco sinistro e
minaccioso di chitarra scandisce l'inizio di 1970, primo vero
assalto alle coronarie di un ascoltatore che fra pochi minuti
verra' indelebilmente "stuprato" dall'incredibile,
inaudita miscela di rabbia, persecuzione, rantolii e istinto
animale che pervade tutta l'opera e che conferisce ad essa un
senso di smarrimento totale, sorta di stordimento dei propri
sensi, forse in spasmodica attesa di un "omicidio sonoro"
che restera' negli annali come una delle piu' audaci proposte
musicali mai udite. Stiamo scorrendo, gia' ammaliati, inchiodati
alla poltrona, il caotico, peccaminosissimo finale stile "primal-scream"
di 1970, nel quale IGGY, finalmente, acquista in maniera definitiva
il titolo, ultra-legittimo, di "performer ai confini della
realta'". Siamo in prossimita' di un'Apocalisse musicale,
e le grida scorticatissime e abrasive di POP danno la sensazione
di trovarci all'interno di un incubo dal quale sembra impossibile
svegliarsi. E' il trionfo della voce (quasi) hard-core di IGGY,
genialmente accompagnata da un disconnesso, stralunatissimo sax,
in quest'occasione suonato da un formidabile STEVEN McKAY, il
quale conferisce un senso di vuoto infinito unita ad una disperazione
senza fine. "I FEEL ALRIGHT" ripete ostentando sempre
piu' le sue scartavetrate corde vocali POP, quasi a segnare un
destino gia' segnato ed al quale non ci si puo' sottrarre minimamente.
A suo modo, decadente. Esaurito il "calderone-erotico-sado-maso"
di una tremenda 1970, segue il brano successivo, la TITLE-TRACK,
l'ideale proseguimento di 1970, quasi come se si trattasse di
un corpo, di un'entita' a se stante e persa nella sua aurea di
eterna infelicita' e rabbia metropolitana. In questo frangente
il sax di McKAY e' magistrale ed "ingrassa" egregiamente
l'atmosfera ai confini della realta', una realta' oramai non
piu' reale ma bensi' una "non-realta'". E' un festival
di macabre, ultra-distorte e selvaggie sonorita', un melting-pot
"grandguignolesco" che spazza via ogni luogo comune
e pone come baricentro il grido, malato e drogato, solitario
dell'Iguana. Chitarra, sax, voce ed una secca, secchissima batteria
sembrano seguire percorsi autonomi sebbene in realta' tutto venga
miracolosamente tenuto in bilico da una strettissima fibra che
rimarra' intatta fino alla fine del disco. E' un party inneggiante
al lato oscuro di una Societa' di un paese eccessivamente benpensante,
del quale gli STOOGES sono gli infallibili, spietati alfieri.
Poi viene il finale. Chiunque sia affetto da problemi alle coronarie
o non riesca a concepire un marasma di follia ed autodistruzione
simile, per favore, si faccia da parte e lasci sgorgare l'infinita
ed indescrivibile rabbia di questi quattro giovanotti di Detroit.
"L.A. BLUES" non e' affatto un blues ma un inverosimile
ed indigeribile accozzaglia di "primal-screams", chitarre
ultra-sature, anarchica batteria e sax in bilico tra inconcepibili
strilli e stonature volute e momenti di brevissima lucidita',
"toppate" da un IGGY POP elevato all'ennesima potenza
(immaginate voi cosa voglia dire, dopo esservi assorbiti le ultime
due tracce...), incurante dell'assurda anti-commercialita' di
un solco simile: una celebrazione al rumore piu' primitivo iconoclasta,
anarchico, spostato e nichilista che si possa immaginare (se
sapete immaginare!...). La fine, ora: quel sibilo, insolente
ed infausto, e la voce di IGGY POP esausta e rantolante, ad annunciare
l'epilogo di una vicenda che non ha eguali nella quarantennale
storia del Rock. Molti "punk-heroes" o presunti tali
dovrebbero pensare una decina di volte prima di affermare di
aver inventato qualcosa, e, casomai avreste dei forti dubbi,
andate a ritroso, MOLTO a ritroso, correte verso il 1970 e cercate
di rendervi conto che cosa quest'uomo, Iggy l'Iguana, sia riuscito
a costruire in un'era fin troppo proibita e perbenista, assai
pericolosa per chi volesse spingersi oltre il consentito. Quando
si dice "un artista anticonformista"....... Non uscirete
"vivi" da questo disco....
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