Non e' affatto semplice
in un 2002 aggiungere qualcosa di nuovo o di originale alla saga
di uno dei gruppi piu' celebrati, amati/odiati/vituperati/osannati
della Storia della musica popolare del XX° SECOLO.
Non e' semplice in considerazione del fatto che, dalla morte
di Freddie Mercury avvenuta Domenica 24 Novembre 1991, le celebrazioni
e contro-celebrazioni si sono succedute incessantemente e, permettetemi
di dire, in alcuni circostanze, alquanto infaustamente.
Questa campagna di "sodomizzazione-psicologica" pro-Queen
(ed in particolare pro-Mercury) e' quanto di piu' spropositato
e stomachevole possa manifestarsi nel sin troppo eterogeneo pianeta
del divismo ad libitum, dove la morte si sovrappone all'esistenza
terrena, consegnando agli angeli custodi l'anima di un folle
spericolato dedito alla lussuria piu' sfrenata, vittima di sfuriate
egocentriche da autentico pagliaccio, instancabile metronomo
della propria assoluta, destabilizzante vanita', schiavo di un
narcisismo francamente a tratti sconcertante.
Ed un pagliaccio (qui inteso nell'accezione "positiva"
del termine) Freddie Mercury lo e' stato per davvero: inarrivabile
show-man, insuperato vocalist dal timbro limpidissimamente cristallino,
una vocalita' inconfondibile ed ammaliante, catturante, personaggio
e uomo dotato di carisma innato e di acutissima, apparentemente
infinita sensibilita' artistica, sensibilita' cosi' smaccatamente,
inauditamente evidente all'interno delle sue melodie, da quelle
piu' conosciute e cantate a squarciagola da milioni di ammiratori,
ad altre "sepolte" dalla polvere, e poste, immeritatamente
e troppo frettolosamente, nel dimenticatoio.
Un (odioso, fastidiosamente "deviante") cliche' vorrebbe
i QUEEN come uno dei gruppi piu' rappresentativi e significativi
degli anni '80, traendo implacabilmente in inganno l'ascoltatore
e fan di turno. Io, invece, tanto per erigermi a bastian contrario
(con inqualificabile sincerita', comunque, su questo non transigo,
affatto!...), ho sempre vivacemente sostenuto, contro il parere
di molti, che Mercury e Compagni abbiano espresso le migliori
e piu' convincenti pagine della loro immensa carriera durante
il decennio precedente, in particolar modo a cavallo tra il 1973,
anno del loro esordio discografico, ed il 1976, con l'avvenuta
pubblicazione di un "must-have" queeniano, A DAY AT
THE RACES (l'ideale successore del capolarovo A NIGHT AT THE
OPERA).
Nel corso di questi tre anni, i Queen hanno potuto constatare,
forse piu' di ogni altro complesso dell'epoca, quanto fosse impossibile
(in alcuni casi improbabile) imporre la propria personalita'
ed arte senza scendere ad eccessivi compromessi; Mercury, May,
Deacon e Taylor si resero subito conto di aver intrapreso la
strada piu' difficile ed irta di traversie e controversie. In
special modo, nel lasso di tempo intercorrente tra il 1971 ed
il 1973, periodo che si sarebbe rivelato cruciale ai fini della
loro implacabile scalata verso la notorieta', i QUEEN avrebbero
provato sulla loro pelle tutti i pro ed i contro di uno spietato,
insolente e talvolta incompetente mercato musicale, vivendo costantemente
sulla solidissima, assoluta convinzione che un giorno non troppo
lontano essi ce l'avrebbero fatta.
Il sottoscritto non e' certamente uno dei maggiori e piu' accaniti
fans del famoso combo londinese, ma non sara' mai nemmeno uno
dei suoi piu' acidi e sadici detrattori.
Da sempre anch'io attento alle evoluzioni di un musicista con
occhio maniacalmente clinico riversato sulla "misurazione"
della sensibilita' melodico-qualitativa di costui, non posso
fare altro che rifiutarmi dinanzi a quelle tronfie e afone grida
inneggianti alla figura di macho "high-clone" sfoggiato
da un superbo ed altezzoso Mercury intorno alla meta' degli anni
'80.
Decisamente piu' sensuale e provocatorio quando indossava, circa
10 anni prima, sgargianti completini di raso o abiti dalle clamorose
scollature, ambigue e conturbanti, disegnati dalla stilista di
fiducia di Freddie Mercury, la leggendaria e mai dimenticata
Zhandra Rhodes (celebre a tal proposito si rivelera' il celeberrimo
"corpo alato", contraddistinto da un netto bianco "angelico").
Fu precisamente in quel contesto che Mercury raggiunse il picco
di provocazione scenico-visiva, lievitando il proprio smisuratissimo,
debordante (ed a volte francamente irritante) ego, l'ideale complemento
ad una personalita' follemente bizzarra e macchiata sovente da
dosi di estrema eccentricita'. Nelle tracce dei QUEEN risalenti
al primo periodo, KEEP YOURSELF ALIVE occupa una posizione di
rilievo: esso fu il primissimo 45 giri ad essere pubblicato,
ma non ottenne il successo sperato, anzi, si tratto' di un fiasco
completo. Il brano, composto da Brian May, si avvaleva dell'interpretazione
di un gia' determinato e minaccioso Mercury: sullo spettatore
viene gettato un imponente, ficcante riff, da considerare tra
i migliori in assoluto di May, mentre Mercury, grazie ad un canto
arrogante e senza facili compromessi, stronca le velleita' di
qualsiasi buonista incapace di comprendere (ahilui...) il significato
del termine "trasgredire". La sensibilita' vocale di
Mercury, al contrario, domina in DOING ALRIGHT, autentica perla
del primo LP: la voce dapprima appare tenue, soave, sospesa sulle
ali di un cielo dorato, mentre in seguito l'umore cambia fino
ad assumere i connotati di una "ballad" elettrica di
chiara derivazione "ledzeppeliniana", derivazione resa
evidente dal violento stacco chitarristico di Brian May, che
non puo' non rievocare (e pesantemente) la struttura di un gioiello
quale WHAT IS AND WHAT SHOULD NEVER BE, composizione che si dimostrava
un perfetto, ideale connubio tra dolcezza semi-sussurrata e veemenza
vocale esternata con massicce, "disturbanti" scariche
di nevrosi. DOING ALRIGHT risaliva al periodo-SMILE, formazione
nella quale militava TIM STAFFELL, ovvero l'uomo che avrebbe
presentato a Brian May e Roger Taylor un ancora sconosciutissimo
(ma gia' alquanto superbo ed egomaniaco) Freddie Bulsara, qualche
tempo dopo ribattezzatosi, come tutti sanno, Freddie Mercury.
Il primo LP scivola tra fascinose, zuccherose ballate, dalla
svenevole bellezza (THE NIGHT COMES DOWN) a ruvide composizioni
hard-rockeggianti quali SON AND DAUGHTER, fin troppo riecheggiante
i fasti dei migliori LED ZEPPELIN (e comunque si tratta di un
brano energico e di ottima fattura, nel quale figura un May dal
sound sporco ed insinuante, particolarmente "cattivo"),
passando per certe reminiscenze di rock progressivo dai toni
evocativi e sospese su magnetici, ammiccanti intrecci vocali
tutti imperniati su di un conturbante falsetto.
Infine LIAR, primo roboante "mattone" mercuriano: una
composizione piuttosto complessa, divisa in differenti
sezioni, autentico "tour-de-force" sostenuto dal gruppo
inglese. Introdotto dalla selvaggia chitarra di Brian May (in
questo frangente a mio avviso rievocante asperita' chitarristiche
piu' vicine a Ritchie Blackmore dei DEEP PURPLE che a Jimmy Page),
si ha l'impressione si apra un varco, nel quale si staglia, brevemente,
un dolce accenno di organo; e' a questo punto che entra in scena
il sensuale vocalismo di Mercury, il quale esplode nel ritornello
urlato a voce piena insieme a tutti gli altri membri dei Queen.
LIAR possiede una cadenza struggente, sottolineata da marcati
accenti drammatici, sebbene, a mio parere, (in)-volontariamente
"rovinato" da troppi cambi di tempo, quasi fosse, questa
scellerata frenesia, un atto di suprema arroganza, una dimostrazione
di (forzato) eclettismo, alla fine solo deleterio e nocivo, per
quel che concerne lo status qualitativo di questa prima opera
by Queen.
Ora mi "catapultero'" piu' che volentieri ed eccitato
nel 1974, anno che vide la pubblicazione del secondo LP, semplicemente
intitolato QUEEN II.
L'album si apre solennemente con PROCESSION, seguita immediatamente
da FATHER AND SON, a mio parere il
primo piccolo capolavoro firmato Brian May: entrambe le tracce
sono state programmate al fine di una reciproca compensazione:
dove PROCESSION rappresenta idealmente l'inconfondibile trademark
della chitarra di May, FATHER AND SON eccelle per lucidita' ed
alta originalita' compositiva, fornendo quel tipico tocco di
epicita' cosi' cara ai Queen nella prima fase della loro carriera.
Il brano in questione e' a dir poco trascinante, e vi si nota
un certo taglio "cinematografico", sorta di confronto
tra padre e figlio, ma rivisitato in chiave fantastica, "pesantemente"
"addobbato" di pomposa musicalita', pomposita' comunque
mai sopra le righe, in questo frangente contenutissima e priva
di inutili, pretenziosi tecnicismi d'accatto. FATHER TO SON col
passare del tempo acquistera' sempre piu' valore per quel che
concerne il il concetto di innovazione musicale, assurgendo a
sorta di "sotto-genere" che verra' dilatato e ripreso
da altri complessi nel corso degli anni successivi (ad esempio
KANSAS e STIX, tanto per tracciare una piccola analisi su questo
originale, fascinoso "movimento").
Per tutto il 1974 (e per molte altre esibizioni dal vivo della
band inglese), l'inossidabile binomio PROCESSION/FATHER TO SON
costituira' l'apertura concertistica-tipo, portando lo stato
umorale dello spettatore verso sintomi di eccitazione pura, un
intro di indiscutibile portata scenica e caparbiamente suggestivo.
May furoreggia ancora con WHITE QUEEN (AS IT BEGAN) e ONE DAY
SOME DAY, che riportano alla superficie una sensibilita' artistico-melodica
non tanto inferiore a quella del suo celebre contraltare.
QUEEN II e' eloquentemente, nettamente diviso in due antitetiche
parti: il WHITE SIDE (lato A) sarebbe divenuto il pretesto per
lo showcase chitarristico e compositivo di May, mentre il BLACK
SIDE avrebbe evidenziato le linee "oscure" e tenebrose
della personalita' di Mercury.
Francamente il sottoscritto opta per il LATO BIANCO, grazie al
talento di May, di gran lungo piu' equilibrato e contenuto di
quello evidenziato da Mercury, mostrando a piu' riprese una sintassi
esecutiva e creativa ben piu' convincente ed elastica. Mercury
infatti in questo frangente s'impone come performer aggressivo
oltre il limite,
autore di brani fastidiosamente inclini ad una sin troppo evidente
e compiaciuta pomposita', sfiorando in alcuni punti del disco
livelli di grossolanita' semi-parodistica assai ardua da digerire
ad un primo ascolto: e' come se si trattasse di "letteratura
musicale tendente al trash" piu' spudorato, senza una possibilita'
di calcare una percorso interiore situato idealmente a meta',
elevando invece all'ennesima potenza il proprio ego, tronfio
e travolgente, disgustosamente estremizzante verso temi epici
e rimandanti il medioevo fiabesco ed oscuro.
OGRE BATTLE, FAIRY FELLER'S THE MASTER STROKE e THE MARCH OF
THE BLACK QUEEN si rivelano essere egregi spaccati della complessita'
mentale e tragicamente perversa di un sempre assetato Mercury,
puntellata da tracce di inevitabile, drammatica oscurita', riflessa
nei testi prettamente enigmatici e fantastici del Nostro.
Passano alcuni mesi, Brian May durante un concerto negli Stati
Uniti (di cruciale importanza per le sorti divistiche del gruppo,
avendo, le "quattro Regine", puntato moltissimo sulla
prima tournee' oltre-oceano) collassa sul palco: gli viene diagnosticata
una epatite virale, causata da un ago sporco di siringa utilizzato
onde somministrare un vaccino allo sfortunato chitarrista qualche
settimana prima. Sara' costretto a rimanere bloccato (fisicamente,
ma non...mentalmente) per diversi mesi, costringendo in tal modo
ai rimanenti compagni l'annullamento del tour, gettando nello
sconforto tutto l'entourage che si era portato al seguito della
grande band.
Saggiamente gli altri tre membri del complesso decidono di concedere
anima e spirito al lavoro in studio di registrazione, scelta
di indiscutibile intelligenza ed accortezza, in maggior considerazione
del fatto che, per un principio di unita' intrinseco nei Queen,
Mercury e Compagni si erano rifiutati categoricamente di rimpiazzare
il convalescente May. Altri complessi, rosi dalla smania di potersi
affermare nel minor tempo possibile, avrebbero spietatamente
"estromesso" l'appestato di turno, atto che, ammirevolmente,
non e' stato compiuto dalla band capitanata da Freddie Mercury.
E cosi', lontani, almeno per il momento, dall'assillo psico-fisico
delle esibizioni dal vivo, i Nostri si concentrano mirabilmente
nel produrre il loro terzo "effort", che vedra' la
luce l'8 Novembre 1974: SHEER HEART ATTACK.
Per l'occasione, un mai rinunciatorio ed orgoglioso Brian May,
fornira' un apporto fondamentale all'interno dell'economia musicale
del gruppo, firmando gemme hard quali NOW I'M HERE (composta
e svilupatta durante il periodo di lunga convalescenza in ospedale)
e la celebre BRIGHTON ROCK, che, dopo PROCESSION, diverra' ultra-legittimamemente
uno dei "favourites" in assoluto dell'eclettico chitarrista
inglese: da convenzionale traccia dal sapore epico e trascinante,
BRIGHTON ROCK assumera' la forma di interminabile gamma di suoni
e colori partoriti dalla RED SPECIAL di May (coniata anche con
il suggestivo termine di "chitarra-caminetto"): e'
il trionfo esecutivo di una funambolica, versatilissima sei corde,
stile, questo, reso ancora piu' enfatico e travolgente dall'ampio
uso di eco di cui May era un assoluto feticista. Un esemplare
incrocio tra asprezza, taglienti note e momenti di altissimo
lirismo. BRIGHTON ROCK rimarra', per sempre, un punto fermo dei
concerti dei Queen, nonche' supremo highlight per May, che a
breve avrebbe portato a pieno compimento la famosa tecnica della
"chitarra-stratificata" (in inglese "layered-guitars").
SHEER HEART ATTACK mostra un decisivo passo in avanti per quel
che concerne la generale sonorita' e livello compositivo raggiunto
dal leggendario complesso. La leadership si divide anche in questo
episodio equamente tra Mercury e May: il primo, affinando il
proprio oltraggioso stile di espressivo drammaturgo, talvolta
decadente e struggente: ne e' prova un piccolo e nascosto capolavoro
mercuriano quale IN THE LAP OF GODS, suddivisa in due contrastanti
parti: la prima, solenne ed evocativa, ricca di cambi d'atmosfera,
una composizione sulla quale cadere a braccia spiegate, innamorandosene
all'istante, tanta e' la dolcezza esecutiva di Mercury, perfettamente
a suo agio nel ruolo di amante perduto e lasciato, ora nella
mani degli Dei, Dei che saranno i giudici del suo contorto destino,
un destino di peccatore oltranzista e pronto a cedere nel pianto
in qualsiasi momento. La seconda parte (IN THE LAPS OF GODS...
"revisited"), al contrario, rappresenta idealmente
la chiusura dell'album (nonche' perfetta "set-closer"
dei concerti risalenti al periodo delle prime tournee' statunitensi),
un "epic anthem" di rara suggestione, che avrebbe chiarificatoriamente
anticipato quella tipica, spesso criticata e vituperata tendenza
da "inno concertistico di massa" (vedi WE ARE THE CHAMPIONS
e relativi "parenti"...).
Impossibile, of course, dimenticarsi di KILLER QUEEN, ad opera
di un gia' gigioneggiante e raffinatissimo Freddie Mercury, piccolo
capolavoro che rasenta la quintessenzialita' perfezionistica
dei Queen versione-Seventies: un geniale, inusuale connubio tra
melodia da "cabaret" e quel pizzico di durezza e lieve
asprezza sinonimi indiscussi di certi glam-rockers furoreggianti,
a cavallo della meta' di un decennio tutto da riscoprire. La
si potrebbe definire uno dei piu' riusciti esempi di "kitsch-melody",
tanta e' la sfrontatezza e sottile provocazione da parte di un
ambiguo Mercury.
Non mancano le succose, talvolta ostentatamente mielose ballate
(mai stucchevoli ad ogni modo, quella stucchevolezza in cui cadranno
i Queen con le loro successive iper-prodotte opere, in special
modo durante gli infausti anni '80): DEAR FRIENDS e LILY OF THE
VALLEY, composizioni atte a confermare una volta di piu' l'estrema
sensibilita' creativa dei Nostri.
Una citazione a parte merita STONE COLD CRAZY, in assoluto tra
le gemme preferite dei Queen; si tratta di un piccolo gioiello
nascosto dal tempo e dalla scarsa memoria di molti ascoltatori
di musica pop: trattasi di un acuminato, tagliente, nevrotico
"proto-speed-metal", che i METALLICA coverizzeranno
con immenso successo (e con la vincita di un prestigioso GRAMMY
AWARD) nei tardi anni '80.
Next-to-come BOHEMIAN RHAPSODY ed il relativo album, l'osannatissimo,
iper-divinizzato A NIGHT AT THE OPERA, capolavoro assoluto dei
Queen e di Mercury in particolare.
Tale prodotto s'insinuera' tra le produzioni piu' costose ed
elaborate della storia del Rock, una stratosferica raccolta di
canzoni maniacalmente rivisitate e studiate al minimo dettaglio,
riecheggianti vivacemente il senso di ingombrante perfezionismo
di cui SGT. PEPPER dei Beatles si fece indiscusso portavoce.
E non a caso, con grande correttezza, A NIGHT AT THE OPERA verra'
definitivamente "etichettato" come il vero, legittimo
SGT. PEPPER degli anni '70.
Il resto della saga-Queen penso voi la conosciate, anche fin
troppo.... e non sara' mio compito reiterare ossessivamente ed
implacabilmente che cosa questi quattro audaci musicisti hanno
significato nel corso della loro ventennale carriera.
Andate rigorosamente a ritroso, dimenticatevi gli insulsi "eighties"
ed affogate il vostro dolore, il vostro pianto e la vostra sensibilissima
anima nei solchi di inarrivabile bellezza presente nelle prime
quattro opere prodotte da Freddie Mercury, Brian May, John Deacon,
Roger Taylor.
Ritengo non abbia alcunche' da aggiungere.
Il resto... spetta a voi!!...
BYE
....un uomo momentaneamente
sospeso tra le braccia degli Dei.... Questo testo è depositato presso
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e quindi coperto da diritti d'autore. Esso non potrà essere
riprodotto totalmente o parzialmente senza il consenso dell'autore
stesso, il quale, peraltro, ha autorizzato la pubblicazione su
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