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Avevo
un morto sotto il letto. Lo avevo visto ieri sera. Mi ero sdraiato
sul pavimento, come facevo quando sentivo la necessità
di pensare. Sì, la necessità. Uno può vivere
benissimo anche senza pensare. Il pensare non dà lavoro.
Il pensare non dà soldi. Il pensare distrugge. Distrugge
. Ero un giovane ventottenne istruito. Anche io leggevo i quotidiani. Ogni tanto. In metrò oppure in treno. Quelle poche volte che ci andavo. Quelli vecchi. Che la gente dimenticava sui sedili. Anche io, a modo mio, ero ricco. Di giornali. Avevo letto che qualche persona viveva nei tumoli del cimitero. Per colpa della povertà. Io non ero ricco. Ma non vivevo in un cimitero. Sfogliavo con avidità le pagine, ma non era mai successo che qualcuno parlasse del morto che tenevo sotto il letto. Io volevo
bene al morto, la sera dividevo la mia cena con lui. Cercavo
di infilargli il cibo in gola. Ma dopo un po' di tempo, il cibo
non entrava più. Quello non inghiottiva. Così mi
incazzavo. Lo prendevo a calci nello stomaco finché il
cibo non usciva dal suo cavo orale. Io lavoravo. In un laboratorio medico. Mi chiamavano esperto. Un tempo il mio lavoro mi piaceva, mi soddisfaceva. Ora pensavo al morto. Il morto
aveva addosso un paio di pantaloni marroni. Una sera, mentre
cercavo di spostarlo da sotto al letto, mi resi conto che dello
strano liquido giallastro gli impregnava il cavallo. "Povero
babbione di merda vai a fare in culo." Gli sferrai un pugno
in bocca. La sua testa cadde all'indietro. Come diceva il dj
"il tuo destino è quello degli scarsi", ma anche
il destino del povero babbione di merda è un destino da
scarso. Squit - squit Pensavo
che l'essermi liberato del mio convivente avrebbe reso più
felice, armoniosa e semplice la mia esistenza. Io sono
alla ricerca. Sai che
anche io avevo una fidanzata? Eh si! Certo anche io, come tutti,
avevo avuto una donna da amare. Evelina si chiamava. Ma io l'ho
sempre chiamata Siryana. Siryana era il nome che avrei voluto
avesse la mia futura moglie. Prima o poi mi sposerò. Evelina
mi aveva lasciato. Nei nostri momenti d'intimità io la
chiamavo con il nome femminile per eccellenza. Evelina piangeva.
Era convinta che l'avessi tradita. Che la tradivo. Mia madre
viveva lontano da me. Noi non andavamo d'accordo. Ma l'unica
cosa che faceva sì che io ricordassi che lei viveva era
il suo nome: Siryana. Sono un bravo ragazzo. Un ragazzo che lavora. Io mi sveglio ogni mattina alle sei per uscire di casa. Porto con me una valigetta. Dentro ho libri. Dentro ho quablock. Dentro ho una penna nera. Dentro ho una penna rossa. Dentro non ho una penna blu. Il blu non mi piace proprio. E' il colore del cielo, nelle sue diverse gradazioni. Il cielo indica l'infinito. Il dito del mio ex convivente indica la vita. La vita che è in atto dopo la morte. Ma se lui vive ed è morto, forse tutti noi viviamo e siamo morti. Non guardate "Sesto senso" Il silenzio può aiutare. Nel silenzio si sta zitti. Nel silenzio non è consentito parlare. Nel silenzio non è consentito respirare. Nel silenzio non è consentito sognare. Nel silenzio non è consentito vivere. Io vivo. Il dito
è deformato. Ormai sarà una settimana che è
qui che mi guarda. Ogni tanto gli taglio l'unghia. Quella cresce.
Ma siccome a volte lo faccio distrattamente, più per dovere
che per altro, finisce che anche un pezzettino di carne vola
via. Il dito dorme con me. Prima di coricarmi lo poggio sul cuscino
e con un fazzoletto lo copro. Lo riparo dal freddo.
Vivere
con un'altra persona in casa, o con parte di una persona non
è facile. Spesso noi ci scontriamo a causa delle nostre
idee. A causa del modo diverso di trascorrere e vivere le giornate. Stamattina
ho visto gli alieni. Si baciavano con le fate. Erano verdi. Le
fate rosa e bianche. Non sono andato al lavoro. Mi hanno licenziato. Loro
non hanno visto gli alieni e le fate. Una fata
si era avvicinata a me. Mi aveva chiesto se avevo della moneta.
Aveva un bicchiere di carta preso da Mc. Donald. Aveva i capelli
incolti, lunghi e neri. Le ho chiesto come si chiamava. Mi ha
risposto "Ma si può sapere chi cazzo sei? Evapora
và!". Fuori
piove. Forse dovrei cercarmi un nuovo lavoro. Ma come ho detto pensare non dà lavoro. Pensare non serve proprio a un cavolo. E io dovrei pensare. Il dito
non esiste più. Ma, caro lettore, caro amico mio, non ti devi preoccupare, lui non è morto, vive dentro me. L'ho messo al riparo dai pericoli del mondo. Dai pericoli della vita. Nel mio stomaco. Oggi
sono passato davanti ad uno strano e nuovo fast food. Ho dato
un occhio al portafoglio. Avevo abbastanza soldi dietro. Sono
entrato. Ho inghiottito per fame, per gola, per tutto, tre salsicce
coperte di senape. Ho bevuto coca cola su coca cola. La pancia
tutto ad un tratto ha iniziato a farmi male. Sono corso alla
toilette. Mi sono liberato. Ma mi sono subito reso conto che
probabilmente avevo espulso dal mio corpo anche il povero babbione
di merda. Pensavo
alla fata. Pensavo
al povero babbione di merda. "
dillo
che sei un pirla"
Quando facevo le elementari mi ricordo ero solito succhiarmi la pelle del braccio, fino a farla divenire rossa, livida. Scoprii il polso, alzando la camicia. Posai le labbra sulla carne bianca. Iniziai a succhiare. Piano piano sentivo che cresceva un'insofferenza sempre più grande dentro di me così misi in uso anche i denti. Questi mi penetravano la carne. Smisi soltanto quando sentii il sapore del sangue in gola. Non era logico, non era razionale che io mi facessi del male fisico. E poi avrei sporcato la camicia che indossavo. Io non
ricordo il mio nome. Nessuno mi chiama. La fata mi chiama "stronzo".
Il povero babbione di merda non mi aveva mai chiamato. Ed io
il mio nome non lo ricordavo. Chiamami tu. Dammi un nome. Non
lasciarmi senza sapere chi sono. Ecco. Chiamami "pirla".
Era il primo che mi aveva attribuito un nome
Queste
furono le parole che pronunciai avvicinandomi alla fata. Lei
mi guardò per pochi ma lunghissimi ed interminabili secondi
mentre con le dita ossute si portava un mozzicone di sigaretta
in bocca. Poi mi disse "senti bello io non 'ho tempo da
perdere, devo tirare su moneta chiaro? Non me fa perdere tempo.."
e si disperse verso una signora dicendo "Mi scusi per caso
ha delle monetine?" Le passai a fianco di nuovo. Stavolta non mi guardò neppure. Non mi chiamò "stronzo" né mi mandò a quel paese. Comprai
un biglietto della metropolitana. Lasciai passare davanti a me
non so quanti vagoni. Mi alzai
dalla panca. Superai con un piede la linea gialla. |