La crisi della morale tradizionale
determina, a mio avviso e diversamente da quanto afferma
Nietzsche, l'impossibilità per la volontà individuale
di porre valori che siano manifestazione del "sè".
Al massimo pare ammissibile l'affermazione di una volontà"collettiva"
di cui ognuno è portatore. Infatti, ogni volta che agiamo,
agiscono con noi un numero variabile di persone, tante quante
sono quelle che vorremmo soddisfare o impressionare. Non esiste
un uomo in grado di porre valori, per la relatività
degli stessi. Del resto Nietzsche fa dire all'uomo aristocratico:
"ciò che è dannoso per me è dannoso
in sè". Bisogna porre l'accento su quel "per
me" proprio per escludere l' "in sè". Al
massimo nell'esprimere un giudizio di valore si può esprimere
una speranza: che ciò che noi reputiamo "giusto",
"vero", "doveroso", venga riconosciuto tale
dagli altri. Niente di più. Ogni sistema di valori si
fonda su una condizione sospensiva, se essa sarà soddisfatta
il sistema reggerà. Ma non ci vuole molto a trasformare
quella condizione sospensiva in una risolutiva. La domanda da
porsi è: é possibile nell'epoca attuale dire qualcosa
di nuovo? Dopo i filosofi greci, il rinascimento, il Romanticismo,
i maestri del sospetto, non si corre il rischio che la nostra
era debba essere "l'era del silenzio"? Qual è
il ruolo della letteratura, della filosofia, della poesia? E'
quello di porre valori o alimentare il dubbio? Io credo che l'aridità
della letteratura contemporanea ci induca a pensare che questo
sia il momento della riflessione sul nostro passato. La riscoperta
dei classici, il dialogo con gli "antiqui", (tra essi
i veri grandi del Novecento), di cui parla Machiavelli, devono
sostituire le chiacchiere di tanti letterati o filosofi indegnamente
improvvisati. |