PrimiPASSI

L'ESORDIO

di Ale Yakke (1/9/2003)

Commento all'articolo


Il signor Medoro-Gori con un movimento ampio del braccio destro fece roteare il mantello nero, con fodera ciliegia, che andò a posarsi teatralmente sulla spalla sinistra sino a coprire parte della schiena.
Avanzava, deciso, con un ritmo da metronomo scandendo nella testa una marcetta, verso l'appuntamento. La sua statura, già imponente, svettava nella strada e i pochi passanti erano richiamati a soffermare uno sguardo incuriosito.

Il signor Medoro-Gori si era alzato già prima dell'alba per prepararsi, ma senza inquietudine, aveva solo programmato per bene i tempi. Un'autorevole barba, gli incorniciava - ben curata, con spuntature precise - il viso lungo e magro.
Il palazzo, che aveva già avvistato, aveva un portone imponente con due giganti ai suoi lati e le cariatidi che sostenevano i balconi colonnati.
Sapeva già che l'attendevano al primo piano, alla destra d'una ampia scala d'ardesia.

Il signor Medoro-Gori, alle 6,35 aveva bevuto il caffè addossato alla spalliera di una delle sei sedie che circondavano il tavolone frattino. Per buon augurio se lo era servito in una tazzina di Limoges bevendolo a piccoli sorsi, con entrambi gli avambracci poggiati.
L'attimo prima di salire la scala lo dedicò ad una studiata pausa: mise a fuoco la targa d'ottone risplendente di polish e soffiò lentamente tutto il fiato sollevando il diaframma e per un attimo ebbe una vertigine.

Il signor Medoro-Gori cominciò a vestirsi dai calzini, neri, calzoni grigio-fumo, camicia di lino bianca decorata da un papillon argenteo. Le scarpe di vernice lanciavano deboli appelli ad un uso più frequente. Alle 7,30 era fermo in posizione fiera davanti allo specchio della camera della madre, misurava con attenzione le proporzioni: la caduta dei calzoni, distese le braccia e controllò che i polsini combaciassero con l'imboccatura delle tasche.
Impugnò il battente con la testa di leone a fauci spalancate e lo sollevò pronto a farlo risuonare, una goccia di sudore scivolò tra le sopracciglia.

Il signor Medoro-Gori controllò che il fazzoletto bianco spuntasse mezzo centimetro dal taschino della giacca con i bottoni dorati. Decise per la due bottoni blu di lana secca. Provò con circospezione a roteare le braccia, poteva muoversi agevolmente. Il polsino sinistro incontrava il cronografo Omega d'oro, e gli scivolava sopra senza inciampi, a coprirlo.
Bang! Un colpo solo di battente. In attesa, una palpebra cominciò a contrarsi, prontamente la mano destra sedò la tensione.
- Il signor Medoro?
- Medoro-Gori. Buongiorno.
Gli aprì, non senza sorpresa, un'ometto che gli arrivata alla cintura. Grigio, magrissimo, acquoso, quasi che il vestito ricoprisse un fantasma.

Il signor Medoro-Gori tornò in cucina, prese la caffettiera e se ne versò, ancora caldo, una tazzina, questa volta accompagnata da un paio di caporali perché si stava facendo strada, nello stomaco, una bolla di cloro che spingeva sul cardias. Cominciò a controllare dov'erano gli occhiali, la custodia rigida, tolse dal portafogli la bustina contenente i suoi santini, anzi, lasciò la bustina e tolse i biglietti, gli scontrini, il tesserino dell'Usl, la patente - non guidava da anni, cioè da quando, scaduto il documento, non lo rinnovò.

Il signor Medoro-Gori s'impose un passo più stretto e il pianto delle suole si fece più scandito, qui qui qui qui qui. Improvvisamente l'omino dopo aver attraversato tre saloni con la volta affrescata altissima, s'inchiodò rigidamente sull'attenti e con voce fievole, ansimò: -Il signor Medoro!
- …Medoro-Gori suggerì curvandosi a sfiorargli l'orecchio.
- Medoro-Gori. _ e voltandosi: - Prego raggiunga la commissione.
E improvvisamente, come era comparso, scomparve lasciandolo di fronte, a circa 10 metri, ad un tavolo lunghissimo, nero, lucido. Al centro una sola persona: una donna (la commissione?!), di un'età indistinta, grigia anch'essa, e anch'essa magra ma con un'aura energica, che con un trillo di voce altissimo fece oscillare la testa sormontata da uno chignon grigio tenuto assieme da un paio di spilloni incrociati. - Venga avanti e si sieda, se vuole può togliersi il cappotto.
- E' un mantello. - Quasi intimidito. Ma si riprese subito sentendo un leggero formicolio alla guancia sinistra. Memore del fastidio alla palpebra, immediatamente sfregò con il palmo e sparì.
- Signor Medoro-Gori, lei sa perché l'abbiamo convocata?
- Credo di saperlo.
- Crede o sa?
- Lo so.
Gli occhi grigio-verdi della persona che aveva di fronte si fecero più aguzzi e penetrarono la fronte del signor Medoro-Gori e sorridendo, scoprì una tastiera di bianchi denti scintillanti. _ Lei non può immaginare… Lei ha lavorato per noi saltuariamente. Conosce il signor Lavalloniére, Gustave Lavalloniére? Il maestro. Lei sinora ha sostituito qualche indisposto. Qualche apparizione nell'ultima fila del coro. Ma sì, ma sì, il maestro ha detto che avrebbe potuto cantare in qualsiasi coro, da corista. Ora, le si presenta un'occasione: uno dei tenori è febbricitante e il maestro ha detto d'averla già ascoltata altre volte nelle prove, e potrebbe farcela e se passa l'esame della prova generale, potrà cantare in trio a fianco del maestro tutto il repertorio con gli altri due tenori. Granada, La donna è mobile, Se quel guerrier io fossi! E lucevan le stelle, insomma tutti i brani tradizionali, la canzone napoletana, e chiuderà con…. (il signor Medoro-Gori si sporse in avanti e persino le orecchie si piegarono, i muscoli della mascella si irrigidirono, sentì il pallore scendere dalle tempie verso la nuca, creando due occhiaie violacee improvvise) con… il Nessun dorma!

Il signor Medoro-Gori ripassò più volte davanti allo specchio della stanza della madre, lanciando occhiate improvvise per notare il minino difetto. Perfetto, elegante, un po' stile retrò ma in tono con l'appuntamento. Chiuse con le mandate la porta di casa, riaprì e un po' compulsivamente ripercorse tutto l'appartamento, si fermò davanti allo specchio e con metodo teatrale fece sventolare la falda del mantello da destra a sinistra lasciando che ricadesse coprendo la spalla. Aveva ragione di rientrare, s'era dimenticato il cappello a tesa larga, nero anch'esso.

Il signor Medoro-Gori fermò il tempo, congelò l'immagine e il suono della voce. L'intorno divenne ovatta, la sedia si incollò ai suoi calzoni, i polpacci cominciarono a friggere e nell'esofago si fece strada un rutto. Lo soppresse e gli si gonfiarono le guance, gli occhi esangui dilatarono le pupille, cominciarono a battere gli incisivi a mo' di timido coniglio, le mani cominciarono a sfregarsi sotto il tavolo e sentì salire dalle braccia un calore che si affaccio sul collo rendendogli insopportabile il colletto dove infilò, deglutendo, il dito medio della mano destra e con movimenti decisi quasi riuscì a strapparselo di dosso.

- Signor Medoro-Gori, signore, va tutto bene? Ha compreso? Vuole forse rinunciare?
Fu un attimo infinito, dalla gola non uscì altro che un raschio, che immediatamente fu seguito da gorgoglii di schiarimento: _ No, cioè sì, sto bene, è che sono emozionato…
-Come una prima volta, vero? Succede a tanti. Si tranquillizzi, se il maestro l'ha scelto…
-Sì certo, sono pronto. _ riprendendo quasi immediatamente il suo aplomb - A quando le prove?
- Oggi, alle 17 al Teatro Regio per la prova generale. Mi raccomando, signor Medoro-Gori. Sa, sono contenta per lei, mi è sempre piaciuta …la sua figura, scusi, la sua voce! Così imponente! Vada ora, dovrà prepararsi, e si riguardi mi raccomando. Alle 5. Buongiorno.
E comparve l'ometto ectoplasmico: _ Mi segua che l'accompagno all'uscita.

Il signor Medoro-Gori, appena fuori, alzò lo sguardo e sfoderando un ghigno lanciò un pugno verso il cielo: _ E vai, e vai. _ Ci mancò un pelo che calpestasse una signora ingombrata da qualche sacchetto della spesa che non si accorse di trovarsela tra i piedi. Il passo si fece più ampio e sempre canticchiando a labbra chiuse la marcetta che trasformo in un 3/4 più veloce. Do-ré do-ré mimmi, mi-fa mi-fa sool-sool, fa-mi fa-ré do-fa do-re-mi-sol-fa… mi-sol-si-laaaa…

Il signor Medoro-Gori, rientrato a casa non perse tempo e liberatosi del mantello si allentò il papillon, aprì i primi bottoni della camicia e inspirando, rumorosamente, abbassando il diaframma e riempiendo i polmoni, spinse l'aria verso l'alto atteggiando le labbra in un cono perfetto e una nota, un do, prese a crescere irrefrenabile, lunghissima, interminabile, le braccia allargate, il petto gonfio, il mento cominciò a salire…
Immediatamente l'atmosfera crollò sotto una scarica di colpi sul pavimento dal vicino di sopra, seguiti da improperi infamanti
.

Il signor Medoro-Gori, pranzò con un'insalata belga che taglio sottilmente, un pomodoro svuotato dei semini, che gli avrebbero potuto procurare acidità, un po' di stracchino molle che spalmò con gesti calibrati su fette di pane pugliese appena abbrustolito nel forno. Con i gomiti appoggiati al tavolo di formica della cucina anni '60 fissava le bianche mattonelle di fronte e lasciava correre i pensieri, composto e con dei movimenti leggeri e furtivi lanciava occhiate ai suoi lati: sarà al centro dei tre oppure a destra… sinistra? Finì con un pera matura e succosa.
Poi restò disteso sul divano ascoltando, senza seguirlo, dalla tv il telegiornale, e ripassava i testi che già conosceva a memoria
.
Entrò dall'ingresso predisposto per gli orchestrali e il coro assieme ad altri, e nessuno gli disse niente, si aspettava qualche complimento.
- Ehilà Arturo, che culo! No, dai, te lo meriti, sei bravo… fagli vedere chi c'è nel coro!
Altri si avvicinarono a quelle parole e vollero sapere. Altri si complimentarono, e si tennero discosti, alcuni si impermalosirono.

Il signor Medoro-Gori guardava nello specchio, attraverso la porta della camera di sua madre, la pendola alle sue spalle che si rifletteva, al contrario. Ogni pochi minuti si alzava avviandosi in bagno dove lo stimolo della minzione si faceva sempre più frequente. Teneva i polsi sotto il getto freddo e controllava il suo pallore. Ancora un'occhiata e già era l'ora di andare.
Dalla porticina dietro la quinta entrò sul palcoscenico. Buona parte dell'orchestra era già al proprio posto e provava in sordina. Gli sembrò che qualcuno lo guardasse e qualcuno gli sorridesse, addirittura il primo violino strinse il pugno e glielo mostrò: "Forza Arturo!".

Il coro prese posizione appena dietro l'orchestra, sistemandosi su tre file, il suo posto non fu occupato da nessun'altro. Restò un po' imbarazzato per essere al centro dell'attenzione, a galleggiare tra archi, clarinetti, e pianoforte, muovendosi in continuazione, stringendo mani, accogliendo gli auguri intreccianva dietro la schiena l'indice e il medio della mano sinistra. Improvvisamente senti vicini i due tenori che l'avrebbero tenuto a battesimo, le loro voci anche nel chiacchierare comunicavano sonorità, scandivano sillabando le parole.
- Eccolo qua, allora questa sera sarà con noi. Caro Medoro-Gori mi sembra? No?
- Sì, ci proverò.
-Stai tranquillo, ti do del tu, posso? - Medoro-Gori annuì mostrando le palme aperte indifeso di fronte ai "due tenori". - Sei tra amici, tu pensa solo a tirare fuori fiato e voce! Ah, ah, ah! Non è così Francisco. A proposito Medoro, posso chiamarti Medoro? Sì, bene. Presentiamoci, ancora non l'abbiamo fatto: Francisco Petillo, - Medoro-Gori gli porse una mano secca come carta da imballo pronunciando un "piacere" gracchiato. - E questo sono io: Romano Faraboschi. - e mollò due manate ad entrambe le spalle intimorendolo.

Improvvisamente il brusio e le scale delle trombe cessarono e tutti guardarono entrare dalla stessa porticina, con passo marziale, i quasi candidi capelli corti alla nuca e svolazzanti sulla fronte, immacolata la camicia aperta sul collo, maglioncino cammello gettato sulle spalle. Senza fermarsi si diresse immediatamente al podio, controllò gli spartiti, lanciò un paio di occhiate panoramiche, si soffermò un poco di più su Medoro-Gori, quasi non ricordasse d'averlo chiamato lui stesso. Non sorrise. Gli puntò la bacchetta per qualche secondo. Piegò impercettibilmente a destra il capo con un leggero ghigno sorridente: "Benvenuto! Buon lavoro". Guardò gli altri "due tenori" flettendo leggermente, anche per loro, la testa. Risposero scattando sull'attenti con un leggero rumore secco di tacchi.

Il signor Medoro-Gori nell'ampio palcoscenico rischiò l'infarto, aveva le pulsazioni in gola - che controllava automaticamente accostando il pollice sinistro al polso destro dietro la schiena e guardando l'orologio digitale, rivolto verso l'orchestra e contava dieci secondi, poi rapidamente moltiplicava. La respirazione divenne quasi dolorosa dietro lo sterno, aveva un leggero senso di costrizione, sapeva di avere le occhiaie evidenti. Appena poteva provava qualche passo deciso verso le toilette per urinare ma incontrava sempre chi lo fermava e sottobraccio lo riportava nel mezzo del palco. Gli inguini ormai pungevano e stringere i muscoli adduttori e addominali non allentavano il bisogno.

Fu messo alla sinistra di Francisco Petillo. Controllò gli spartiti. Non li guardò, se non l'ordine di esecuzione, le sapeva tutte a memoria le arie, le armonie, le canzoni, e aveva una buona disposizione per il dialetto napoletano.

Il maestro Lavalloniére batté la bacchetta e fu subito un'esplosione totale con Granata, che cantarono in coro. "Seguì Core ingrato" che eseguì Romano Faraboschi. Medoro-Gori venne chiamato a esibirsi con "Amapola", dolce milonga dei primi del secolo scorso, ricevette dal maestro solo uno sguardo professionale d'approvazione, continuò Petillo con "La donna è mobile", eccellente timbro, pensò Medoro-Gori. Assieme eseguirono alternandosi "Di quella pira" del Trovatore, e ancora un paio di canzoni: Faraboschi, Non ti scordar di me; Petillo: Ay, ay, ay. A Medoro-Gori toccò un pezzo d'effetto, che eseguì soffrendo e sudando, stringendo e rilasciando i muscoli addominali e accorgendosi che qualche goccia gli bagnava gli slip: "Mattinata" di Leoncavallo. Il maestro questa volta lo squadrò con interesse, non si era sbagliato a sceglierlo per la sostituzione, il concerto che terremo, pensava Lavalloniére, domani sera all'Arena di Verona sarà esaltante!

Ci fu un minuto di sospensione e dal coro qualche applauso sostenne l'orchestra e principalmente i "tre tenori". Qualcuno, fulminato dallo sguardo del direttore artistico, in poltrona, gridò: "Viva Arturo!", seguito da: "Medoro-Gori sei tutti noi".

Il maestro richiamò l'attenzione, era il momento che tutti aspettavano. Da sempre quando ci si preparava a intonare il "Nessun dorma" della Turandot di Puccini, scorreva adrenalina a fiumi, tremavano le mani ai violinisti, sudavano le fronti agli ottoni, il timpanista era pronto ad esplodere colpi poderosi, il coro cercava la concentrazione e l'intonazione delle frasi introduttive della folla e delle donne. I "tenori" scrollavano le spalle sciogliendole, inspiravano ed espiravano rumorosamente, facevano vibrare le labbra nitrendo come i cavalli.

Il signor Medoro-Gori non riusciva più a controllare la sudorazione che si alternava al pallore del viso, gocce pesanti scivolavano dal centro della fronte fra le sopracciglia lungo il naso e finivano sulle labbra, succhiate, anche se amare, per sciogliere la lingua che diventava sempre più rigida. Le gambe tremavano per la stoica resistenza al bisogno della minzione. Sino ad ora tutto era andato meravigliosamente bene, gli usciva la voce come non mai, gli sguardi del direttore facevano presagire un prosieguo di questa inaspettata, straordinaria occasione. Ancora poco: il "Nessun dorma" hanno deciso di lasciargli l'ultimo "do" di petto, l'onore più grande al quale nessun "tenore" avrebbe mai rinunciato. Si sarebbe preso tutti gli applausi, non solo stasera alle prove generali, dal coro, dall'orchestra e sicuramente anche la stretta di mano del direttore. Ancora poco. I respiri divennero affannosi ma controllati, solo il dolore agli inguini era ormai insopportabile. Avrebbe tenuto un "do" incredibile, interminabile e poi rivolgendo lo sguardo al soffitto del teatro, lentamente, a braccia aperte si sarebbe avviato, calmo, ma deciso verso la quinta e poi alla toilette. Avrebbero pensato: "E' l'emozione, lasciamolo, appena rientra, vorrà beccarsi ancora gli applausi, anche quelli del direttore artistico, delle "mascherine", delle inservienti e delle guardarobiere, dei pompieri, insomma, la richiesta di un "bis"…

La folla (nel coro) cominciò sottovoce con: "Nessun dorma! Nessun dorma!".

Faraboschi (Calaf) ripetè: "Nessun dorma! Nessun dorma!.
Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza
Guardi le stelle che tremano
D'amore e di speranza!"

Petillo (sempre Calaf): "Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà
Il silenzio che ti fa mia!

Ancora le donne: Il nome suo nessun saprà…
E noi dovrem, ahime! Morir! Morir!

E finalmente Medoro-Gori (riprende Calaf) in un crescendo grandioso dell'orchestra:

Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
Tramontate, stelle! All'alba vi-n-cero!
VI-N-CE-RÒOOOOOOO ahhhhgh
VI-N-CE…aaahhhh aaaahhhhghgh
Aaahhh aaahhhh
Aaahhh aaahhhh

Uff uff fuuu fuuuuuu
Ah
Ah
Aaaaahhhh.....

Al signor Medoro-Gori si dipinse sul viso l'espressione estasiata di chi si è liberato di un peso insopportabile. Non un segreto, non un delitto mai scoperto, non la liberazione da una costrizione amorosa.
Si lasciò cadere sulle ginocchia, il viso rivolto in alto con gli occhi chiusi e le braccia aperte aspettando una chiamata dal pubblico, non vide allargarsi tra le gambe una pozza dall'odore forte, i calzoni grigi si scurirono, riprese il colore del viso, scomparvero le occhiaie, il sudore ormai inondava la fronte e la camicia, ansimava di piacere.

L'aria si fermò, ad alcune coriste si congelò l'espressione con il palmo aperto pronto a coprire la bocca spalancata, al primo violino scappò uno SDENGH!