Il signor Medoro-Gori
con un movimento ampio del braccio destro fece roteare il
mantello nero, con fodera ciliegia, che andò a posarsi
teatralmente sulla spalla sinistra sino a coprire parte della
schiena.
Avanzava, deciso, con un ritmo da metronomo scandendo nella testa
una marcetta, verso l'appuntamento. La sua statura, già
imponente, svettava nella strada e i pochi passanti erano richiamati
a soffermare uno sguardo incuriosito.
Il signor Medoro-Gori
si era alzato già prima dell'alba per prepararsi, ma
senza inquietudine, aveva solo programmato per bene i tempi.
Un'autorevole barba, gli incorniciava - ben curata, con spuntature
precise - il viso lungo e magro.
Il palazzo, che aveva già avvistato, aveva un portone
imponente con due giganti ai suoi lati e le cariatidi che sostenevano
i balconi colonnati.
Sapeva già che l'attendevano al primo piano, alla destra
d'una ampia scala d'ardesia.
Il signor Medoro-Gori,
alle 6,35 aveva bevuto il caffè addossato alla spalliera
di una delle sei sedie che circondavano il tavolone frattino.
Per buon augurio se lo era servito in una tazzina di Limoges
bevendolo a piccoli sorsi, con entrambi gli avambracci poggiati.
L'attimo prima di salire la scala lo dedicò ad una studiata
pausa: mise a fuoco la targa d'ottone risplendente di polish
e soffiò lentamente tutto il fiato sollevando il diaframma
e per un attimo ebbe una vertigine.
Il signor Medoro-Gori
cominciò a vestirsi dai calzini, neri, calzoni grigio-fumo,
camicia di lino bianca decorata da un papillon argenteo. Le scarpe
di vernice lanciavano deboli appelli ad un uso più frequente.
Alle 7,30 era fermo in posizione fiera davanti allo specchio
della camera della madre, misurava con attenzione le proporzioni:
la caduta dei calzoni, distese le braccia e controllò
che i polsini combaciassero con l'imboccatura delle tasche.
Impugnò il battente con la testa di leone a fauci spalancate
e lo sollevò pronto a farlo risuonare, una goccia di sudore
scivolò tra le sopracciglia.
Il signor Medoro-Gori
controllò che il fazzoletto bianco spuntasse mezzo
centimetro dal taschino della giacca con i bottoni dorati. Decise
per la due bottoni blu di lana secca. Provò con circospezione
a roteare le braccia, poteva muoversi agevolmente. Il polsino
sinistro incontrava il cronografo Omega d'oro, e gli scivolava
sopra senza inciampi, a coprirlo.
Bang! Un colpo solo di battente. In attesa, una palpebra cominciò
a contrarsi, prontamente la mano destra sedò la tensione.
- Il signor Medoro?
- Medoro-Gori. Buongiorno.
Gli aprì, non senza sorpresa, un'ometto che gli arrivata
alla cintura. Grigio, magrissimo, acquoso, quasi che il vestito
ricoprisse un fantasma.
Il signor Medoro-Gori
tornò in cucina, prese la caffettiera e se ne versò,
ancora caldo, una tazzina, questa volta accompagnata da un paio
di caporali perché si stava facendo strada, nello stomaco,
una bolla di cloro che spingeva sul cardias. Cominciò
a controllare dov'erano gli occhiali, la custodia rigida, tolse
dal portafogli la bustina contenente i suoi santini, anzi, lasciò
la bustina e tolse i biglietti, gli scontrini, il tesserino dell'Usl,
la patente - non guidava da anni, cioè da quando, scaduto
il documento, non lo rinnovò.
Il signor Medoro-Gori
s'impose un passo più stretto e il pianto delle suole
si fece più scandito, qui qui qui qui qui. Improvvisamente
l'omino dopo aver attraversato tre saloni con la volta affrescata
altissima, s'inchiodò rigidamente sull'attenti e con voce
fievole, ansimò: -Il signor Medoro!
-
Medoro-Gori suggerì curvandosi a sfiorargli l'orecchio.
- Medoro-Gori. _ e voltandosi: - Prego raggiunga la commissione.
E improvvisamente, come era comparso, scomparve lasciandolo di
fronte, a circa 10 metri, ad un tavolo lunghissimo, nero, lucido.
Al centro una sola persona: una donna (la commissione?!), di
un'età indistinta, grigia anch'essa, e anch'essa magra
ma con un'aura energica, che con un trillo di voce altissimo
fece oscillare la testa sormontata da uno chignon grigio tenuto
assieme da un paio di spilloni incrociati. - Venga avanti e
si sieda, se vuole può togliersi il cappotto.
- E' un mantello. - Quasi intimidito. Ma si riprese subito sentendo
un leggero formicolio alla guancia sinistra. Memore del fastidio
alla palpebra, immediatamente sfregò con il palmo e sparì.
- Signor Medoro-Gori, lei sa perché l'abbiamo convocata?
- Credo di saperlo.
- Crede o sa?
- Lo so.
Gli occhi grigio-verdi della persona che aveva di fronte si fecero
più aguzzi e penetrarono la fronte del signor Medoro-Gori
e sorridendo, scoprì una tastiera di bianchi denti scintillanti.
_ Lei non può immaginare
Lei ha lavorato per noi
saltuariamente. Conosce il signor Lavalloniére, Gustave
Lavalloniére? Il maestro. Lei sinora ha sostituito qualche
indisposto. Qualche apparizione nell'ultima fila del coro. Ma
sì, ma sì, il maestro ha detto che avrebbe potuto
cantare in qualsiasi coro, da corista. Ora, le si presenta un'occasione:
uno dei tenori è febbricitante e il maestro ha detto d'averla
già ascoltata altre volte nelle prove, e potrebbe farcela
e se passa l'esame della prova generale, potrà cantare
in trio a fianco del maestro tutto il repertorio con gli altri
due tenori. Granada, La donna è mobile, Se quel guerrier
io fossi! E lucevan le stelle, insomma tutti i brani tradizionali,
la canzone napoletana, e chiuderà con
. (il signor
Medoro-Gori si sporse in avanti e persino le orecchie si piegarono,
i muscoli della mascella si irrigidirono, sentì il pallore
scendere dalle tempie verso la nuca, creando due occhiaie violacee
improvvise) con
il Nessun dorma!
Il signor Medoro-Gori
ripassò più volte davanti allo specchio della
stanza della madre, lanciando occhiate improvvise per notare
il minino difetto. Perfetto, elegante, un po' stile retrò
ma in tono con l'appuntamento. Chiuse con le mandate la porta
di casa, riaprì e un po' compulsivamente ripercorse tutto
l'appartamento, si fermò davanti allo specchio e con metodo
teatrale fece sventolare la falda del mantello da destra a sinistra
lasciando che ricadesse coprendo la spalla. Aveva ragione di
rientrare, s'era dimenticato il cappello a tesa larga, nero anch'esso.
Il signor Medoro-Gori
fermò il tempo, congelò l'immagine e il suono della
voce. L'intorno divenne ovatta, la sedia si incollò ai
suoi calzoni, i polpacci cominciarono a friggere e nell'esofago
si fece strada un rutto. Lo soppresse e gli si gonfiarono le
guance, gli occhi esangui dilatarono le pupille, cominciarono
a battere gli incisivi a mo' di timido coniglio, le mani cominciarono
a sfregarsi sotto il tavolo e sentì salire dalle braccia
un calore che si affaccio sul collo rendendogli insopportabile
il colletto dove infilò, deglutendo, il dito medio della
mano destra e con movimenti decisi quasi riuscì a strapparselo
di dosso.
- Signor Medoro-Gori,
signore, va tutto bene? Ha compreso? Vuole forse rinunciare?
Fu un attimo infinito, dalla gola non uscì altro che un
raschio, che immediatamente fu seguito da gorgoglii di schiarimento:
_ No, cioè sì, sto bene, è che sono emozionato
-Come una prima volta, vero? Succede a tanti. Si tranquillizzi,
se il maestro l'ha scelto
-Sì certo, sono pronto. _ riprendendo quasi immediatamente
il suo aplomb - A quando le prove?
- Oggi, alle 17 al Teatro Regio per la prova generale. Mi raccomando,
signor Medoro-Gori. Sa, sono contenta per lei, mi è sempre
piaciuta
la sua figura, scusi, la sua voce! Così
imponente! Vada ora, dovrà prepararsi, e si riguardi mi
raccomando. Alle 5. Buongiorno.
E comparve l'ometto ectoplasmico: _ Mi segua che l'accompagno
all'uscita.
Il signor Medoro-Gori,
appena fuori, alzò lo sguardo e sfoderando un ghigno lanciò
un pugno verso il cielo: _ E vai, e vai. _ Ci mancò un
pelo che calpestasse una signora ingombrata da qualche sacchetto
della spesa che non si accorse di trovarsela tra i piedi. Il
passo si fece più ampio e sempre canticchiando a labbra
chiuse la marcetta che trasformo in un 3/4 più veloce.
Do-ré do-ré mimmi, mi-fa mi-fa sool-sool, fa-mi
fa-ré do-fa do-re-mi-sol-fa
mi-sol-si-laaaa
Il signor Medoro-Gori,
rientrato a casa non perse tempo e liberatosi del mantello
si allentò il papillon, aprì i primi bottoni della
camicia e inspirando, rumorosamente, abbassando il diaframma
e riempiendo i polmoni, spinse l'aria verso l'alto atteggiando
le labbra in un cono perfetto e una nota, un do, prese a crescere
irrefrenabile, lunghissima, interminabile, le braccia allargate,
il petto gonfio, il mento cominciò a salire
Immediatamente l'atmosfera crollò sotto una scarica di
colpi sul pavimento dal vicino di sopra, seguiti da improperi
infamanti.
Il signor Medoro-Gori,
pranzò con un'insalata belga che taglio sottilmente,
un pomodoro svuotato dei semini, che gli avrebbero potuto procurare
acidità, un po' di stracchino molle che spalmò
con gesti calibrati su fette di pane pugliese appena abbrustolito
nel forno. Con i gomiti appoggiati al tavolo di formica della
cucina anni '60 fissava le bianche mattonelle di fronte e lasciava
correre i pensieri, composto e con dei movimenti leggeri e furtivi
lanciava occhiate ai suoi lati: sarà al centro dei tre
oppure a destra
sinistra? Finì con un pera matura
e succosa.
Poi restò disteso sul divano ascoltando, senza seguirlo,
dalla tv il telegiornale, e ripassava i testi che già
conosceva a memoria.
Entrò dall'ingresso predisposto per gli orchestrali e
il coro assieme ad altri, e nessuno gli disse niente, si aspettava
qualche complimento.
- Ehilà Arturo, che culo! No, dai, te lo meriti, sei bravo
fagli vedere chi c'è nel coro!
Altri si avvicinarono a quelle parole e vollero sapere. Altri
si complimentarono, e si tennero discosti, alcuni si impermalosirono.
Il signor Medoro-Gori
guardava nello specchio, attraverso la porta della camera
di sua madre, la pendola alle sue spalle che si rifletteva, al
contrario. Ogni pochi minuti si alzava avviandosi in bagno dove
lo stimolo della minzione si faceva sempre più frequente.
Teneva i polsi sotto il getto freddo e controllava il suo pallore.
Ancora un'occhiata e già era l'ora di andare.
Dalla porticina dietro la quinta entrò sul palcoscenico.
Buona parte dell'orchestra era già al proprio posto e
provava in sordina. Gli sembrò che qualcuno lo guardasse
e qualcuno gli sorridesse, addirittura il primo violino strinse
il pugno e glielo mostrò: "Forza Arturo!".
Il coro prese posizione
appena dietro l'orchestra, sistemandosi su tre file, il suo posto
non fu occupato da nessun'altro. Restò un po' imbarazzato
per essere al centro dell'attenzione, a galleggiare tra archi,
clarinetti, e pianoforte, muovendosi in continuazione, stringendo
mani, accogliendo gli auguri intreccianva dietro la schiena l'indice
e il medio della mano sinistra. Improvvisamente senti vicini
i due tenori che l'avrebbero tenuto a battesimo, le loro voci
anche nel chiacchierare comunicavano sonorità, scandivano
sillabando le parole.
- Eccolo qua, allora questa sera sarà con noi. Caro Medoro-Gori
mi sembra? No?
- Sì, ci proverò.
-Stai tranquillo, ti do del tu, posso? - Medoro-Gori annuì
mostrando le palme aperte indifeso di fronte ai "due tenori".
- Sei tra amici, tu pensa solo a tirare fuori fiato e voce! Ah,
ah, ah! Non è così Francisco. A proposito Medoro,
posso chiamarti Medoro? Sì, bene. Presentiamoci, ancora
non l'abbiamo fatto: Francisco Petillo, - Medoro-Gori gli porse
una mano secca come carta da imballo pronunciando un "piacere"
gracchiato. - E questo sono io: Romano Faraboschi. - e mollò
due manate ad entrambe le spalle intimorendolo.
Improvvisamente il brusio
e le scale delle trombe cessarono e tutti guardarono entrare
dalla stessa porticina, con passo marziale, i quasi candidi capelli
corti alla nuca e svolazzanti sulla fronte, immacolata la camicia
aperta sul collo, maglioncino cammello gettato sulle spalle.
Senza fermarsi si diresse immediatamente al podio, controllò
gli spartiti, lanciò un paio di occhiate panoramiche,
si soffermò un poco di più su Medoro-Gori, quasi
non ricordasse d'averlo chiamato lui stesso. Non sorrise. Gli
puntò la bacchetta per qualche secondo. Piegò impercettibilmente
a destra il capo con un leggero ghigno sorridente: "Benvenuto!
Buon lavoro". Guardò gli altri "due tenori"
flettendo leggermente, anche per loro, la testa. Risposero scattando
sull'attenti con un leggero rumore secco di tacchi.
Il signor Medoro-Gori
nell'ampio palcoscenico rischiò l'infarto, aveva le
pulsazioni in gola - che controllava automaticamente accostando
il pollice sinistro al polso destro dietro la schiena e guardando
l'orologio digitale, rivolto verso l'orchestra e contava dieci
secondi, poi rapidamente moltiplicava. La respirazione divenne
quasi dolorosa dietro lo sterno, aveva un leggero senso di costrizione,
sapeva di avere le occhiaie evidenti. Appena poteva provava qualche
passo deciso verso le toilette per urinare ma incontrava sempre
chi lo fermava e sottobraccio lo riportava nel mezzo del palco.
Gli inguini ormai pungevano e stringere i muscoli adduttori e
addominali non allentavano il bisogno.
Fu messo alla sinistra
di Francisco Petillo. Controllò gli spartiti. Non li guardò,
se non l'ordine di esecuzione, le sapeva tutte a memoria le arie,
le armonie, le canzoni, e aveva una buona disposizione per il
dialetto napoletano.
Il maestro Lavalloniére
batté la bacchetta e fu subito un'esplosione totale con
Granata, che cantarono in coro. "Seguì Core ingrato"
che eseguì Romano Faraboschi. Medoro-Gori venne chiamato
a esibirsi con "Amapola", dolce milonga dei primi del
secolo scorso, ricevette dal maestro solo uno sguardo professionale
d'approvazione, continuò Petillo con "La donna è
mobile", eccellente timbro, pensò Medoro-Gori. Assieme
eseguirono alternandosi "Di quella pira" del Trovatore,
e ancora un paio di canzoni: Faraboschi, Non ti scordar di me;
Petillo: Ay, ay, ay. A Medoro-Gori toccò un pezzo d'effetto,
che eseguì soffrendo e sudando, stringendo e rilasciando
i muscoli addominali e accorgendosi che qualche goccia gli bagnava
gli slip: "Mattinata" di Leoncavallo. Il maestro questa
volta lo squadrò con interesse, non si era sbagliato a
sceglierlo per la sostituzione, il concerto che terremo, pensava
Lavalloniére, domani sera all'Arena di Verona sarà
esaltante!
Ci fu un minuto di sospensione
e dal coro qualche applauso sostenne l'orchestra e principalmente
i "tre tenori". Qualcuno, fulminato dallo sguardo del
direttore artistico, in poltrona, gridò: "Viva Arturo!",
seguito da: "Medoro-Gori sei tutti noi".
Il maestro richiamò
l'attenzione, era il momento che tutti aspettavano. Da sempre
quando ci si preparava a intonare il "Nessun dorma"
della Turandot di Puccini, scorreva adrenalina a fiumi, tremavano
le mani ai violinisti, sudavano le fronti agli ottoni, il timpanista
era pronto ad esplodere colpi poderosi, il coro cercava la concentrazione
e l'intonazione delle frasi introduttive della folla e delle
donne. I "tenori" scrollavano le spalle sciogliendole,
inspiravano ed espiravano rumorosamente, facevano vibrare le
labbra nitrendo come i cavalli.
Il signor Medoro-Gori
non riusciva più a controllare la sudorazione che si alternava
al pallore del viso, gocce pesanti scivolavano dal centro della
fronte fra le sopracciglia lungo il naso e finivano sulle labbra,
succhiate, anche se amare, per sciogliere la lingua che diventava
sempre più rigida. Le gambe tremavano per la stoica resistenza
al bisogno della minzione. Sino ad ora tutto era andato meravigliosamente
bene, gli usciva la voce come non mai, gli sguardi del direttore
facevano presagire un prosieguo di questa inaspettata, straordinaria
occasione. Ancora poco: il "Nessun dorma" hanno deciso
di lasciargli l'ultimo "do" di petto, l'onore più
grande al quale nessun "tenore" avrebbe mai rinunciato.
Si sarebbe preso tutti gli applausi, non solo stasera alle prove
generali, dal coro, dall'orchestra e sicuramente anche la stretta
di mano del direttore. Ancora poco. I respiri divennero affannosi
ma controllati, solo il dolore agli inguini era ormai insopportabile.
Avrebbe tenuto un "do" incredibile, interminabile e
poi rivolgendo lo sguardo al soffitto del teatro, lentamente,
a braccia aperte si sarebbe avviato, calmo, ma deciso verso
la quinta e poi alla toilette. Avrebbero pensato: "E' l'emozione,
lasciamolo, appena rientra, vorrà beccarsi ancora gli
applausi, anche quelli del direttore artistico, delle "mascherine",
delle inservienti e delle guardarobiere, dei pompieri, insomma,
la richiesta di un "bis"
La folla (nel coro) cominciò
sottovoce con: "Nessun dorma! Nessun dorma!".
Faraboschi (Calaf) ripetè:
"Nessun dorma! Nessun dorma!.
Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza
Guardi le stelle che tremano
D'amore e di speranza!"
Petillo (sempre Calaf):
"Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà
Il silenzio che ti fa mia!
Ancora le donne: Il nome
suo nessun saprà
E noi dovrem, ahime! Morir! Morir!
E finalmente Medoro-Gori
(riprende Calaf) in un crescendo grandioso dell'orchestra:
Dilegua, o notte! Tramontate,
stelle!
Tramontate, stelle! All'alba vi-n-cero!
VI-N-CE-RÒOOOOOOO ahhhhgh
VI-N-CE
aaahhhh aaaahhhhghgh
Aaahhh aaahhhh
Aaahhh aaahhhh
Uff uff fuuu fuuuuuu
Ah
Ah
Aaaaahhhh.....
Al signor Medoro-Gori
si dipinse sul viso l'espressione estasiata di chi si è
liberato di un peso insopportabile. Non un segreto, non un delitto
mai scoperto, non la liberazione da una costrizione amorosa.
Si lasciò cadere sulle ginocchia, il viso rivolto in alto
con gli occhi chiusi e le braccia aperte aspettando una chiamata
dal pubblico, non vide allargarsi tra le gambe una pozza dall'odore
forte, i calzoni grigi si scurirono, riprese il colore del viso,
scomparvero le occhiaie, il sudore ormai inondava la fronte e
la camicia, ansimava di piacere.
L'aria si fermò,
ad alcune coriste si congelò l'espressione con il palmo
aperto pronto a coprire la bocca spalancata, al primo violino
scappò uno SDENGH! |