Agosto. L'odore del mare
era talmente intenso da sembrarmi salato. Il sole pitturava di
sfumature calde la facciata oblunga della chiesa, i davanzali
pavesati di gerani delle case, che, nella loro luminosità,
nascondevano quel pallore torrido e stancante di tutta un'estate.
Io oltrepassavo la piazza in bicicletta, l'asciugamano variopinto
sulle spalle magre, diretto in spiaggia. Li rivedevo sempre lì.
Insieme: tre vecchi curvi seduti a un tavolo all'aperto del caffè,
come re di uno stesso mazzo di carte: da tempo gettato via, e
dimenticato. Ci salutavamo. Io agitavo un braccio o dicevo semplicemente
- E' un buon giorno?-, loro si limitavano a mettere da parte
ogni discussione per fissarmi. Silenziosamente, finchè
sparivo pedalando dietro la chiesa giallastra sotto il sole.
Così replicavano al saluto. Certe volte, se da fare non
c'erano che poche barbe o nulla, il barbiere li chiamava dal
retrobottega: sporgeva dalla finestrella la sua testa spelacchiata
e faceva un cenno con la mano; o un fischio al tale che chiamavano
Sor- per via dell'Occupazione in Grecia cui aveva preso parte.
Si parlava di Calcio e del mondiale del 1970, dal barbiere nella
piazza. Si seppellivano guerre e politica come chiacchere tabù.
E si parlava di Gianni Rivera naturalmente. Del campione. A me
piaceva: li avevo sentiti discutere diverse volte di quelle cose,
quando mamma riteneva che i miei capelli fossero diventati troppo
lunghi per un bambino di undici anni. E tutte le volte che ero
stato lì, Sor aveva raccontato di quella sera in cui Rivera
lo sentì suonare il sassofono e si complimento poi con
lui sinceramente.
In un locale di Milano, in ottobre, nel '68: in una sensazione
di calore per le luci soffuse della pedana; come lo immagino
tutt'ora.
"Una grande esibizione." Il campione glielo aveva detto(Gesù,
il più grande di tutti glielo aveva detto
)
"Non pensavo si potessero fare certe cose col sassofono.
Complimenti. Sono sincero."
Gli aveva stretto la mano. Ma Sor era rimasto immobile, come
una grossa statua di sale, senza riuscire dannatamente a dire
neanche -grazie-. Poi, il campione era scomparso fra un nugolo
di altri. In mezzo a una folla di gente che lasciava il locale
stretto. Una cartolina del duomo autografata, come unico ricordo
dell'incontro per il musicista. Sor la portava sempre con sé,
da allora. Nel portamonete insieme alla foto della povera moglie
e della sua vecchia banda: -Orchestra&Lombardi-.
I vecchi non erano d'accordo con il barbiere che riteneva meramente
Pelè meglio di Rivera. Anche su questo ricadeva spesso
la conversazione. I vecchi sostenevano che erano due giocatori
profondamente diversi. E basta.
"sono diversi", faceva Sor rauco, "è inutile
paragonare un falco a una gazzella. E' inutile parlare così
ingenuamente del più grande."
Borbottava a lungo se lo si faceva arrabbiare. Ma succedeva assai
di rado per fortuna. Io inopportunamente una mattina mi intromisi
nella conversazione. Dissi che anche Paolo Rossi era stato straordinario
nel segnare i tre goal alla Nazionale Brasiliana, nell'82. Non
aggiunsi altro.
I vecchi si zittirono ugualmente per quasi un minuto, come se
avessi bestemmiato. Il barbiere mi sorrise. Quindi fu Sor a rompere
il silenzio definitivamente, dopo un altro minuto. Disse:
"Pelè non ha mai avuto la potenza di Rivera."
Il barbiere disapprovò con un gesto della testa spelacchiata:
su cui i capelli ricrescevano solo in strisce sottili o in ciuffi
spampanati.
"Pelè era classe e scatto e anche potente."
Così poi concluse: "Rivera era solo potenza."
Indignato Sor stava scuotendo il capo e uno dei vecchi(che era
forse di dieci anni più anziano di Sor ma sicuramente
più curvo)cancellò ogni tensione dicendo che in
ogni caso Rivera e Pelè avevano cominciato e concluso
l'Era del Vero Calcio.
"Tutto il prima non è che una prativa parentesi,
mi pare. Il dopo mi sembra uno strano scambio di interessi."
Nessuno osò contraddirlo. Io fissavo in silenzio il mio
collo imbavagliato e la mia faccetta paffuta nello specchio che
avevo di fronte, chiedendomi cosa volessero significare tutti
quei discorsi sui primitivi e sugli interessi. Avevo undici anni,
come ho già detto
Ma c'era dell'altro in quel racconto
che mi piaceva. Era l'immagine di un omone nerovestito ed elegante,
in smoking; un uomo altro e forte contro il tramonto, i piedi
nudi per metà affondati nella sabbia, in mano un sassofono.
Suonava. La sua era una melodia dolce che gli ricordava la tristezza
degli scontri in Grecia probabilmente, mentre un ragazzo in maglia
azzurra palleggiava abile accanto a lui con una sfera di cuoio
del 1968. La sfera era a tratti rossa e come infuocata nei riflessi
del sole. Il ragazzo con la maglia azzurra era Rivera, o forse
Pelè, o forse entrambi assieme. Sullo sfondo il mare sciabordava
timidamente nel golfo della spiaggia e tutt'intorno musica. Le
labbra sul becco del sassofono.
Il mese di settembre
di un anno più tardi smise di suonare: io lo capii subito
perché al solito tavolo del caffè in piazza non
c'erano seduti che due dei tre re di quel mazzo di carte abbandonato.
"Sor?" io avevo appena ricominciato le mie vacanze
estive e venivo dalla grande città. Ero ansioso di regalare
al mio sassofono una sciarpa che gli avevo comprato quel Natale.
Ma il più giovane e il più vecchio degli anziani
del paese mi fissarono con occhi stanchi e inespressivi senza
schiudere le labbra: "Sor?" anche quando ribadii la
domanda. Il minore, senza cambiare espressione, mi fece aspettare
ancora qualche secondo(benché avessi mangiato la foglia
ma
potevo crederci così facilmente?)prima di riferire ciò
che era successo. Ne disse soltanto una parte peraltro, sebbene
credo sia stata la più importante. "Era vecchio."
Così disse. "tutti noi lo siamo." E io a quelle
parole corsi a casa prima ancora di rendermene conto, fra le
lacrime. La sciarpa firmata tra le mani, pensando che Rivera
e Pelè avevano cominciato e concluso l'Era del Vero Calcio
e
che avevo imparato molto più di questo. |