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NOVE

di Italo Papini

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Uno sconosciuto si avventurava nella zona vecchia della città. Del paese insomma, di quella che era il nocciolo della vita quotidiana di venti, ventitremila persone. Imboccò la strada, ormai quasi dimenticata dai veicoli a motore, che dalla piazza principale portava nella zona delle capanne, punteggiata ancora da negozi. Chiusi.

Due. Erano le due di notte e non si sentiva che il rumore lontano e indistinto del fiume (che non è un fiume vero, almeno non adesso: è piuttosto un torrente), compagno ideale di passeggiate solitarie. E notturne. Continuò il suo incedere passando un piccolo incrocio, che a destra portava al semaforo e poi più in là al teatro e all’ospedale. Seguitò diritto, continuando sulla strada che portava alla periferia del paese, dove iniziava la via montana, che portava al fresco estivo e ai funghi.

Tre colpi di clacson lo ridestarono da quel suo torpore da viandante rapito. Un’auto stava proprio dietro di lui, illuminando con i suoi occhi abbaglianti la strada davanti, interrotta dalla sua stessa ombra. Si fece da parte e lasciò passare l’auto che portava chissà dove una piccola truppa di giovinastri che lo mandarono allegramente a quel paese. Ma doveva essere arrivato.

Quattro. Ecco il numero quattro. La porta marrone, scrostata dal poco sole che si intrufolava in quella stretta viuzza e spazzata dai venti di pioggia dei mesi invernali, aveva un pomello lucido e cromato che doveva essere, secondo l’idea dei proprietari, una sciccheria elegante. Almeno per quella strada.

Il campanello era un interruttore giallastro, consunto dall’uso e incorniciato da una macchia sudicia. Il nome campeggiava in lettere stile scuola elementare su un pezzetto di cartoncino appiccicato con il nastro adesivo, sopra il campanello. Una piccola luce, spenta o fulminata, sovrastava la porta e faceva da maggiordomo alle finestre del piano superiore.

Cinque persiane occhieggiavano dal primo piano. Due finestre doppie ed una singola, forse il bagno o uno sgabuzzino. Le persiane, marroni pure loro, avevano resistito meglio alle stagioni e mantenevano ancora un aspetto decente. Sopra ancora il tetto. Tegole rossicce che nella penombra dell’illuminazione stradale (un lampione ogni cinquanta metri, di luce gialla e finita) apparivano nere come la pece. Dal canale spuntavano ciuffi d’erba e un’antenna sbilenca sovrastava tutta la struttura.

Sei anni per tornare e forse, ripensandoci, non ne era valsa la pena. La porta era sempre la stessa, così come la luce sulla porta. Nessuno si era curato di cambiarla. Il pomello della porta era ancora quello che aveva scelto lui. E tornava, comunque, da straniero. La sua era stata davvero un’avventura. O meglio una sventura. Ricordava ancora il giorno che se ne era andato, o meglio, che lo avevano portato via..

Sette rintocchi dell’orologio, quello di piazza, e si svegliò. Nel turbinare dei pensieri si era addormentato, sulla soglia di quella casa, al numero 4. Aveva il vestito di sei anni prima, quello che aveva quando se ne era andato. In tasca pochi spiccioli, un fazzoletto e una lettera. La lettera di una donna, che gli avevano recapitato due mesi prima. Tutto tornava giusto, come in un puzzle di cui abbiamo tutti i pezzi. Si ricorda distintamente la faccia della persona che gliela aveva consegnata: pochi, radi capelli grigi, due occhi grigi anch’essi ma non di colore, di schifo, di rabbia di vivere, infossati dalla vecchiaia e dalla pensione che non arriva. E il naso grosso, rossiccio, semaforo di alcolici, e la bocca sdentata: "C’è una lettera per te.". E basta.

Otto giorni prima di aprirla. Mancava il coraggio. Era stata sua la colpa e adesso che stava per finire di scontarne la pena... non avrebbe resistito ad un perdono. Non ci sarebbe riuscito. Ma poi alla fine prese il coraggio a piene mani ed aprì la busta. La scrittura era indecisa, da elementari. Sgrammaticata e senza punteggiatura. Le parole erano scritte faticosamente, si vedeva e si sentiva. Ma si sentiva anche altro.

Era finito in prigione per sei lunghi anni perchè aveva rubato al supermercato. Era un giorno speciale, il compleanno di sua moglie, e voleva festeggiarlo come si doveva. Ma il modo in cui lo festeggiò non piacque proprio a nessuno. Non piacque al direttore del supermercato, non piacque alla polizia, non piacque a lui. E non piacque nemmeno a sua moglie. Ma ormai era fatta e si trovava di nuovo davanti alla porta di casa sua, senza soldi e con una lettera in mano. E libero.

Decise di aspettare ancora un pò, che la strada si svegliasse per suonare il campanello e presentarsi di nuovo alla sua famiglia.

Nove. Suonarono le nove al campanile di piazza. La strada si era ormai risvegliata e brulicava di persone indaffarate, tanto indaffarate da non notare quello straniero appoggiato allo stipite della porta al numero 4. Si, quella casa disabitata da un mese ormai, quando la signora che ci abitava (da sola, perchè quel farabutto del marito era in galera!) era passata a miglior vita.

Ma non aveva più importanza per lo straniero. In fondo il destino, o come lo si voglia chiamare, ha qualche momento di compassione e in quella strada, al numero quattro di quella viuzza in ombra, vicino al semaforo e al teatro e all’ospedale, con il sottofondo del fiume nelle orecchie, aveva compiuto un prodigio.

Dello straniero non erano rimasti che i vestiti, e le ossa, e la pelle, e i capelli.... e gli spiccioli e il fazzoletto. Ma sia la lettera, scritta male e spiegazzata, che la sua anima, scritta male e spiegazzata, non erano più lì.

Dieci.