Cultura - PrimiPASSI

GRED

di Delawere

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Vi racconterò la storia di un Gred, un ragazzo che come noi, amava divertirsi ma fu travolto da qualcosa di più grande di lui.

Decisi di far rotta verso una città, che avevo scorto dal pennone, per rifornirmi.
Scendo a terra e passeggio per la città; era strana, non c'erano ragazzi ma solo donne e bambini che mi guardavano. All'improvviso vengo fermato da un gruppo di guardie che mi arrestato; incredulo senza reagire le seguo e mi conducono in un edificio la cui sola vista ti fa raggelare il sangue. Venni lasciato in una stanza dove stavano molti ragazzi; avevano i vestiti, se così potevano essere definiti, a pezzi e sudici; regnava un'atmosfera surreale, nessuno parlava, fissavo i loro occhi e li vedevo spenti, la loro mente assente, ognuno si ritagliava un angolo di solitudine e lì sembrava trovassero una pace dimenticata.
Curioso mi avvicinai alle sbarre per capire cosa stesse succedendo e vidi che questi ragazzi venivano portati ad uno ad uno davanti ad un uomo su un tavolino; rimasi scioccato nel vedere quest'uomo che, senza vederli in faccia, li accusava di una serie di reati astratti e dopo una formula retorica li consegnava al plotone d'esecuzione.
E la cosa più strana è che questi ragazzi neanche tentavano di difendersi, a quella età dove la gioia di vivere fa fare pazzie; invece si presentavano stanchi, con lo sguardo assente come se fossero gia morti o non aspettassero altro.
Mi rimarrà sempre impressa la faccia di quel ragazzo e del suo giudice, l'uno rassegnato e l'altro la cui quotidiana attività gli aveva fatto perdere ogni senso di umanità; entrambi svuotati da quella follia che accompagna l'uomo da sempre.
Terrificato mi allontano da quella vista e mi siedo vicino ad un ragazzo, nel quale vedevo un flebile spiraglio di luce da quegli occhi stanchi.
All'inizio anche lui sembrava geloso della propria solitudine, ma insistedo incomicia a raccontarmi la sua storia come se non aspettasse altro per liberarsi da quel macigno che stritolava la sua coscenza.
Mi raccontava che lui come molti altri ragazzi erano stati inghiottiti da una guerra assurda, per la disputa di un monte, una roccia che non vale una sola vita di quei ragazzi.
..... All'inizio eravamo contenti di servire la patria, ed eravamo attirati e stregati dal fascino di quel demone.
Ci dicevano che era una guerra giusta e che Dio era con noi, quante volte nella storia questa frase ha accompagnato la più assurda delle follie, come se ci fossero delle guerre giuste, e protette da Dio. Come se Dio volesse che fratello uccida fratello, che padre uccida figlio e che la madre è contenta di vedere il suo frutto fatto a pezzi dall'odio.
Andammo in una caserma, il luogo dove l'uomo viene spogliato della sua volontà, gli viene cancellato ogni senso di umanità, e gli viene insegnato e inculcato l'odio; allora è pronto per il macello, perde la propria identità per diventare un numero e il suo nome non è più quello di santi, "ma macchina di morte".
....Tutto questo viene fatto in maniera scientifica e subdola, all'inizio come un gioco, sparare a delle sagome, infilzare con la baionetta sacchi di paglia, poi quelle sagome e quei sacchi diventeranno ragazzi e il passo è breve.
Finito l'addestramento andammo al fronte, e ci rendemmo conto che la realtà era ben diversa, e amara, l'odore del sangue, il lamento e le grida di soldati straziati e fatti a pezzi, lo sguardo dei nostri compagni più grandi che ci fissavano col loro silenzio e nel loro vuoto, quasi a farci presagire che qualcosa di terribile, mostruoso ci aspettava, e non avevamo scampo.
E quella stessa vista accresceva il nostro odio, verso un nemico che ancora non avevamo visto, ma gia l'odiavamo al punto di farlo a pezzi al solo scorgerne della "sagoma".
Mi assegnarono ad un plotone e il mio compito, dato che ero un tiratore eccezionale, era quello del cecchino, dovevo sparare appena intravedevo quell'odiosa sagoma.
Avevo sparato a molte sagome, ma non le avevo mai viste in faccia, nel frattempo persi molti dei compagni di corso, e un senzo di tristezza e rassegnazione mi permeava sempre di più, allora il mio odio e la mia vendetta diventavano sempre più profondi.
Sparavo ed ero felice quando cadevano a terra. Una sera fummo colti in un imboscata, fu l'inferno, il rumore assordante delle armi, il fumo, le grida dei miei amici e quelle dei miei nemici mi facevano impazzire, sparavo a qualunque cosa vedessi e non capivo più niente.
Il rumore delle armi diminuì, avevano fatto il loro bottino quotidiano di ragazzi, e strisciai per terra senza una direzione per salvarmi; all'improvviso vidi una di quelle sagome nell'oscurità e mi avventai contro, estrassi il pugnale e lo colpii ripetutamente con tutta la forza del mio odio. Sfinito, caddi in un sonno profondo.
Al mattino vidi per la priva volta il viso di una di quelle sagome che tanto mi avevano insegnato ad odiare e uccidere; respirava ancora e sussurrava con quel poco di respiro che aveva, divenni un deserto, era uguale a me aveva la mia stessa età potevamo essere fratelli e non ce lo facevano sapere.
D'un tratto svanì quel senso di odio che mi aveva accompagnato fino a quel momento e cercai di aiutarlo; con le sue ultime forze mi mostrò l'immagine della sua famiglia e mi chiese di scriverle, allora spirò e con lui il mio senso di odio e vendetta.
Presi il portafoglio e lessi il nome, quello che avevo ucciso; si chiamava Burt, e non era un numero o una sagoma ma un essere umano.
Allora buttai il fucile e il cinturone, e camminai col cuore triste per come ero e per come mi avevano trasformato; non avrei più sparato a nessuna sagoma, indossato una stupida divisa che mi rendeva numero nella massa.
Mi fermarono, mi interrogarono, e mi portarono al comando; lì una serie di uomini con le uniformi ben tirate e piene di decorazioni mi interrogavano per avere risposta su quello che loro definivano follia, non provare odio.
Mi resi conto che erano persone che la guerra la facevano a tavolino, dislocando sulle cartine oggetti che rappresentavano plotoni o reggimenti, numeri in una strategia che prevede come soluzione finale l'annientamento del nemico.
Allora risposi alle loro domande con una sola domanda: l'avete mai visto in faccia quello che voi chiamate nemico? Non rispondendomi mi hanno portato qui.
La cosa più strana è che ci vedono con lo stesso odio "dei nostri nemici", e già quando l'odio si impossessa di te, ti trasforma e ogni giorno si accresce e non fai più differenza, odi tutto e tutti, ma soprattutto te stesso.
Prima che le guardie lo portassero dall'uomo sul tavolino, si girò, mi guardo per l’ultima volta e disse: preferico non vedere un'altra alba che vivere nell'oscurità dell'odio.
Quelle parole rimarranno per sempre impresse in me, e capii perchè quei ragazzi non si difendessero davanti al giudice.
Uscii, ripresi il mio viaggio, ma sono grato a quei momenti trascorsi con quel ragazzo il cui sguardo e parole custodirò per sempre nel mio cuore.