DA:

RITROVARE PONTE

DI ELIO GALASSO - FINITO DI STAMPARE NEL MARZO 1984-.

 

 

PRESENTAZIONE

Domenico Ocone 

 

 

Per volontà espressa lo scorso anno dal Consiglio Comunale di Ponte di realizzare una serie di iniziative culturali destinate a riqualificare la vita di questo Comune ed a valorizzarne l’immagine esterna, nasce la Rassegna Ritrovare Ponte.

Quale invito a riflettere sulla nostra identità collettiva, il termine “ritrovare” rende con efficacia l’esigenza, qui avvertita come altrove, di coniugare insieme passato presente e futuro.

La Rassegna è stata ideata e curata dal Prof. Elio Galasso, Direttore del Museo del Sannio di Benevento, che ne ha messo a punto il programma con rigore specialistico ed altrettanto entusiasmo. Un grosso merito va dato anche all’ottimo Giuseppe Corbo, Presidente della Commissione organizzatrice.

Nucleo della manifestazione risulta la Mostra Ponte:

l’ambiente, l’uomo, le forme, interessante in linea genera/e per il metodo nuovo di intervento culturale e, specificamente, perché si pone come Una prima storia complessiva della civiltà pontese.

 

 Avvalendosi della fotografia come strumento originale di analisi e di narrazione, intersecando i piani di lettura mediante un attento lavoro di regìa, la Mostra racconta il millenario sviluppo di Ponte dall’età sannitica ai giorni nostri. Per questo ne viene qui pubblicato il saggio critico.

Una seconda mostra, dal titolo Incontri con l’arte contemporanea, si affianca alla prima per determinare una qualificata occasione di aggiornamento, indirizzata in primo luogo ai giovani, sulla creatività figurativa attuale. Ad esporvi le loro opere sono stati invitati artisti campani il cui “curriculum” di livello nazionale segnala esperienze ed interessi diversi nei settori della ricerca visiva con materiali fotoestetici coordinati a riletture di capolavori classici (Pina Arfé), dell’arte informale (Antonio Del Don no), dell’indagine strutturale fotografica (Giovanni De Noia), dell’immaginario geometrico (Gianni De Tora).

La Rassegna registra due momenti spettacolari con concerti di musica lirica e da camera (Carmelima Corbo, Emilio Pepe, Leonardo Quadrini, Coro “Santa Cecilia” diretto dal M0 Lupo Ciaglia, Lucia Marcasciano, Paolo Cardone, Michelangelo De Luca, Raffaele Bibbò, Vincenzo D’Arcangelo e Giuliano Mariano) troppo rari a Ponte e quindi d’obbligo tra le varie iniziative.

Per la serata conclusiva, una conferenza del Prof. Elio Galasso, con diapositive appositamente realizzate, illustrerà le fasi di maggior prestigio della nostra storia antica ed il significato della chiesa longobarda di Santa Anastasia, che ormai entra di diritto a far parte del patrimonio monumentale italiano.

Al suo aprirsi, la rassegna Ritrovare Ponte merita dunque un saluto e un augurio, per mio tramite espresso dall’intera cittadinanza.

Ci onora il sostegno della Regione Campania, concesso su proposta di Amelia Ardias Cortese, Assessore Regionale alla Pubblica Istruzione e Cultura.

Un sentito ringraziamento devo al Prof. Elio Galasso, per il fondamentale apporto scientifico, e a tutti coloro che con contributo tecnico, hanno reso possibile un evento culturale di cui Ponte sa essere consapevolmente orgogliosa.

 

 

 

 

 

PONTE

L’AMBIENTE, L’UOMO, LE FORME

DI ELIO GALASSO -MARZO 1984-.

 

Pons Sanctae Anastasiae, Ponte di Santa Anastasia, chiamò questo luogo nel secolo XI il cronista Leone, benedettino cassinese nominato vescovo cardinale di Ostia, amico del grande abate Desiderio, il futuro papa Vittore III di nobile stirpe beneventana.

Leone si avvalse di un imponente complesso di fonti narrative, documentarie e monumentali, di testimoni oculari e ricordi personali. Scrupoloso com’era, doveva senz’altro sapere che, per distinguerlo dai punti di valico degli altri ponticelli in legno più a monte sul torrente Cozzia, oggi Alenta, il posto veniva comunemente definito ad pontem lapideum, “al ponte di pietra “. Così era stata infatti indicata la zona di confluenza dell’Alenta nel Calore in un atto notarile dell’849, che non accennava all’abbazia di Sant’ Anastasia. In quell’anno dunque il centro monastico non esisteva o non aveva ancora assunto il ruolo religioso ed economico che, due secoli dopo, indusse Leone Ostiense a ridefinire la denominazione del luogo: Pons Sanctae Anastasiae.

L’abbazia era diventata il nuovo punto di riferimento. Il tempo ha segnato la fine di entrambi i monumenti. I resti del ponte sulla Via Latina che da Capua, per Telesia, conduceva a Benevento, emergono appena dall’acqua con blocchi di pietra agganciati e frammenti murari in mattoni rossi disposti a taglio, secondo tecniche costruttive che parlano il linguaggio architettonico romano, a riprova del diritto di precedenza del nome “Ponte”.

La loro grande forza evocativa conferisce alla fotografia d’apertura della Mostra una dimensione altamente simbolica, mentre l’intera rassegna Ritrovare Ponte acquista significati di nuove modalità di rapporto con il reale vissuto dalle società passate e trasmesso fino a noi.

A sua volta, l’abbazia è del tutto scomparsa, fatta salva la chiesa che, a pochi metri dal ponte, priva di copertura ma intatta nell’abside e nelle mura perimetrali, scenograficamente risalta in aperta campagna sullo sfondo del monte Pèntime, per il campanile tronco che ne cavalca il prospetto e per un certo senso di spazialità minore di quanto non sia in realtà.

Il problema è reinventarne un uso ripristinando meccanismi di transito funzionanti un tempo a ritmo elevato, se è vero che un volto umano delineato con ingenuità, orme di piede incise e sommari graffiti votivi, su due pietre tufacee di una soglia originaria poi reimpiegate nel duecentesco campanile di Sant’ Anastasia, restituiscono le suggestioni e, per così dire, le voci di infiniti pellegrini diretti al Gargano dove, nel santuario nazionale dei Longobardi beneventani, lasciavano di sé analoga traccia sui muri e sulle pareti della Grotta di

S.  Michele.

Ma rinnovare oggi occasioni di transito è questione che rientra nella problematica del turismo del Mezzogiorno interno.

Sulla scorta dell’ampio capitolo sulla chiesa longobarda pontese apparso nel 1981 nel volume Campania della Guida d’italia del Touring Club Italiano in seguito ad una mia prima individuazione del suo valore architettonico ed al recupero di frammenti archeologici e di sculture nell’interno, in collaborazione con il Circolo Culturale Giovanile di Ponte (Proposta, Rivista di Cultura contemporanea, Benevento 1977 n. 34), proporrei di considerarne anzitutto le relazioni con i monumenti altomedioevali dell’ambito territoriale beneventano. Tra questi, Sant’Anastasia di Ponte costituisce l’anello conclusivo di una maglia di edifici densi di problemi stilistici e storiografici, alla cui soluzione la Mostra offre un preciso contributo di analisi per immagini e di approfondimenti selettivi.

Rilevanti risultati ha dato l’attenzione non tanto alle tipologie costruttive della chiesa, a pianta basilicale absidata con muratura listellata di mattoni alternati alla pietra — derivante con evidenza dalla basilica di Santa Maria di Compulteria presso Alvignano, nella Valle del Medio Volturno — quanto alle disposizioni particolari, al “gesto” dell’artefice impegnato nell’esecuzione dell’opera, dove la negligenza nell’adozione di misure è apparsa sempre collegata ad una intenzionale rinuncia alla simmetria. L’assenza, ad esempio, di aperture nella parte bassa delle pareti determinava atmosfere di sacrale penombra entro cui gli sguardi venivano attratti dalle finestre in alto per ritrovare, con la luce, mattoni di cotto disposti sulle pareti in forma di palmette — «il giusto fiorirà come la palma», canta la Bibbia — e di croci con apici triangolari, assai vicine a quelle prodotte nelle botteghe orafe longobarde di Benevento.

Il documento fotografico dello scavo, in corso nel 1983, di una deposizione funeraria longobarda con corredo di armi in ferro, consente l’ipotesi di un nucleo abitato non distante dall’abbazia, fortificato anteriormente all’incastellamento normanno di Ponte, ma nell’occasione attuale ha fatto pensare a sottili simbologie del passaggio nell’aldilà, in connessione con la presenza, nell’abside, dei resti di un affresco raffigurante forse il consueto Cristo Sole di Giustizia. La tomba era infatti orientata ad est nello stesso senso della chiesa. Del resto, anche a volerli attribuire ad un’iconostasi, ad un ciborio d’altare o alle strutture della confessione o cripta, solo in parte esplorata, i frammenti di sculture trovati nella chiesa sono troppo numerosi e tra loro diversi per poter avere una provenienza unica.

A poche centinaia di metri a monte del torrente, un’altra chiesetta, intitolata a San Dionigi — gràngia, ossia dipendenza di Sant’Anastasia con magazzini e qualche cella per i monaci — è connotata da segni longobardi. Significativo un cippo funerario reimpiegato a faccia in giù come pietra di sostegno della parete di fondo: l’urceus scolpito sul lato sinistro, ritenuto più efficace della patera del lato opposto, venne collocato all’esterno con intento decorativo identico a quello dei bassorilievi romani incastrati in vista nella cinta muraria di Benevento del secolo VIII. Un secondo cippo venne poi affiancato al primo, ma lievemente discosto, per modo che l’epigrafe sebbene inclusa nel muro rimanesse percepibile e continuasse a svolgere la funzione di “monumentum”.

Con questi riferimenti e avvalendosi della specificità del “medium” fotografico, la Mostra diventa una originale via di approccio alle sensazioni prodotte dai fatti geometrici, luminosi e ottici. Nel suo complesso suggerisce di fondere l’analisi delle disposizioni irregolari con quella dei dati archeologici e costruttivi in una unica analisi, che tratti sinteticamente della visualità dello spazio architettonico.

Nelle architetture longobarde meridionali esiste una antitesi tra la regolarità dell’impianto — cripta del Duomo e Santa Sofia di Benevento, Sant’Anastasia di Ponte — e le irregolarità particolari dei dettagli. Questo conflitto si risolve, a mio avviso, nella realizzazione visuale dell’edificio. E le cosiddette irregolarità appaiono parte integrante del lavoro intellettuale necessario per trasformare un segno in una forma, ed una forma in una struttura formale. La proposta è dunque di osservare l’oggetto architettonico per cogliere le fasi di questo processo che aggiunge dati alla comprensione dell’edificio e dell’ambiente culturale che lo ha generato.

L’abbazia di Sant’Anastasia va posta a discriminante storica più che cronologica fra l’età antica e il processo di urbanizzazione di Ponte, documentato dal Castello e dall’evolversi delle forme di vita legate al lavoro agricolo. Prima di essa, non è possibile individuare caratterizzazioni locali del rapporto uomo-ambiente o del prodotto artigianale.

Non che manchino testimonianze forti di un avanzato stadio di civiltà già in epoca preromana. La Fibula sannitica di Ponte, conservata nel Museo del Sannio a Benevento, rappresenta il momento di maturazione, qui elaborato, di un modello di fibula con ardiglione mobile proveniente da area egeo - anatolica e importato dalla costa tirrenica dove esso era pervenuto facendo il periplo del Mediterraneo. Anche la Punta bronzea di giavellotto, trovata con la fibula in contrada San Barbato, risponde a criteri di avanzata tecnologia del metallo e di singolare ricerca estetica all’interno dell’esigenza funzionale primaria.

Il luogo tuttavia registrava piuttosto fenomeni di convergenza di gruppi ad economia pastorale, sull’itinerario dei fondovalle del Volturno e del Calore da Capua a Maluentum, obbligato per il trasferimento di merci dalla progredita città etrusca verso l’interno e percorso da individui dotati di sapere tecnologico, miranti ad integrarsi per avviare il germe di un meccanismo urbano.

Della situazione storica preromana è stato dato conto con sottolineature degli elementi dell’ambiente naturale e segnalando una brocchetta biansata a vernice nera, medita.

Il ponte in pietra sull’.Alenta, certo non anteriore al Il secolo a.C., segna anche un sostanziale mutamento culturale a causa dello sviluppo sociale determinato da traffici regolari e da insediamenti romani stabili. Fra le tracce presenti in zona, risulta interessante un gruppo di mattoni tondi ritrovati in parte nella chiesa di Santa Anastasia e in parte in contrada Piana, ancora sovrapposti, lungo la Via Latina verso Telesia. Insieme ad un frammento di canale quadrato per il deflusso di acque, pure in cotto, essi costituiscono sicura traccia della sala termale di una villa rustica romana, primo vero documento di una residenza in territorio pontese.

S’infittiscono d’ora in avanti le testimonianze dell’uomo, e sono tutte inedite quelle presentate nel secondo settore della Mostra: un bronzo dell’imperatore Vespasiano, un’ampollina per unguenti profumati, un tegolone di copertura tombale.

L’ordinamento scientifico della esposizione non ha escluso alcune chiavi didattiche, per consentirne la fruizione più larga possibile. La lettura dell’àmbito urbano procede perciò, dopo l’episodio discriminante dell’abbazia di Sant’Anastasia, attraverso continue apposizioni di immagini per distinguere, nell’intreccio delle strutture del Castello e del nodo urbano antico, le linee di diffusione dei messaggi da parte del potere feudale e le interrelazioni dei tenori di vita delle famiglie locali.

Un primo piano di lettura segna i riscontri fra il territorio e il Castello quale momento strategico-militare. Alle torri cilindriche di avvistamento e di difesa, qualcuna con base a scarpata, la fotografia restituisce il rapporto dimensionale con l’andamento altimetrico della collina e il verticalismo incombente sull’aggressore. Questo per la fase anteriore alla metà del Trecento, quando Ponte dovette essere coinvolta nella distruzione dell’ossatura rurale meridionale, costituita dalla rete dei villaggi medioevali costretti dall’insediamento della feudalità a parteggiare per una o per un’altra fazione e a subire le conseguenze del forzato impegno politico. Nel 1351 infatti papa Clemente VI, in una bolla che confermava da Avignone i confini del territorio pontificio di Benevento, definiva inhabitatum, disabitato, il castello ossia il villaggio di Ponte.

Un secondo piano di lettura individua lo spazio residenziale interno, incentrato sulla corte di Piazza Riola, dove alcuni elementi architettonici tardocinquecenteschi e logge di discreta fattura sul fronte meridionale sono apparsi meritevoli di analisi puntuali, mentre sul versante est un corpo di fabbrica di matrice castellana, dovuto forse ai Sarriano, duchi di Ponte, si articola con ingressi rustici e piano nobile.

Infine, piuttosto che rintracciare le sequenze cronologiche dell’impianto urbano, si è preferito percorrere la tessitura del nucleo antico lungo le visuali viarie e i radi slarghi, estendendo lo studio al rapporto dialettico degli edifici cardine con le singole residenze, per sotto-

lineare il carattere linguistico quale segno delle funzioni e, in sostanza, della qualità della vita.

Fra gli elementi tipici di un’edilizia povera molto degradata, con scorci ambientali perfino suggestivi, sono indicati il variato uso di materiali architettonici e le invenzioni strutturali, dai tetti a plurispioventi alle scale esterne a parapetto pieno, dalle strutture portanti in legno di quercia di logge e piattabande di finestre, ai frammentari motivi decorativi, assai curati negli stipiti e nelle chiavi di volta dei portali sette ed ottocenteschi in pietra calcarea.

Gran parte del tessuto edilizio pontese risale alla ricostruzione seguita ai terremoti del 1688 e del 1702 con novità di scarso rilievo. Dalla metà del Seicento il Castello, per meglio dire il palazzo ducale, non rappresentava più un vitale elemento di accentramento per l’insediamento urbano, mentre la presenza di un edificio ecclesiale — probabilmente la stessa cappella del palazzo, via via trasformata in chiesa — si faceva sentire con forza in relazione al controllo ecclesiastico su manifestazioni pubbliche quali processioni e festività religiose.

Il secolo XVIII che nel 1793 vedeva consistente in appena 310 individui la popolazione locale — pervenuta nei 1881 a 554 persone e solo nel 1901 a 1569 unità —si concluse quindi con l’inserimento della Chiesa del SS. Rosario nei corpi di fabbrica antichi del Castello superstiti sul limite sud dell’abitato, in special modo sfruttando la torre rotonda a guardia del ponte sulla foce dell’Alenta. Alla chiesa è da riconoscere oggi la funzione di una quinta teatrale d’epoca sullo sfondo dello scenografico Viale della Rivoluzione.

Da qui muove l’ampliamento residenziale ottocentesco e moderno, che segnando a valle la cospicua emergenza della Chiesa di Santa Generosa, raggiunge e invade, insieme al nucleo industriale, U territorio di Torrecuso oltre il Calore.

A Ponte la presenza millenaria dell’uomo e il suo intervento per adattare l’ambiente naturale ed esprimere la propria intelligenza hanno determinato tutta una mappa di punti focali, di concrezioni segniche. Questa sintomatica è sembrata interessante perché imprecisa, aperta, in espansione.

Il momento della coralità si svolge nel settore L’uomo, dove sono poste sotto osservazione testimonianze fra le meno appariscenti e meno culturalmente fruibili dal vasto pubblico, benché per la quasi totalità ben note. E’ un invito a riflettere, una provocazione, se si vuole, per indicare che prima dell’oggetto monumentale e urbano c’è il soggetto, l’autore.

Il discorso si incentra su tre temi: il lavoro, simboleggiato dal ciclo del grano; i segni della civiltà contadina, per interrogarsi sulla ritualità della vita provinciale, riconoscerla e fare i conti con la propria originaria cultura; momenti di vita pontese, sintetiche riflessioni per immagini sulla identità etnica di uno di quei centri meridionali emblematici, qual’è Ponte, dove tutti diventano i protagonisti di uno straordinario “theatrum mundi”.

Quasi proposta di un confronto tra l’ieri e l’oggi appaiono qui i giovani che, pur senza storia, attraverso la fotografia entrano a far parte della “memoria” di Ponte. E’ un metodo nuovo di indagine culturale, un mezzo per spaccare la superficie dei fatti ed entrare in un dialogo tutto da farsi sui problemi contemporanei, sui progetti del futuro.

Appartiene all’idea di “ritrovare” Ponte la singolare tematica svolta a conclusione della Mostra: Le forme.


Qui lo spazio urbano viene ripercorso per raccogliere il gesto pubblico dell’individuo, quello che indica la scelta di un’immagine e della sua traccia materica. In altre parole il momento della creatività individuale, solitamente anonima.

Silenziosi ma persistenti sedimenti di segni riconducono ad una scena primaria, ad una temporalità bloccata, talora ad enigmi ripetuti in una scrittura anomala. Sono comunque voci sempre interne ad una dimensione culturale che sa avvalersi di simboli come cifra di un codice costante, per renderli comprensibili anche a chi abbia radici diverse.

Il loro legame è con la ritualità e il tempo, con la geometria e la luce, con la materia naturale e la terra.

Entrare in consonanza con tale linguaggio costituisce stimolo e dischiude scoperte affascinanti perché consente di risalire, lungo cadenze immemorabili di vicende e ritmi di inventiva fantastica e di densa nobiltà gestuale, fino alla coscienza di una nascosta grandezza di essere nel mondo.