Mendicanti ai semafori: oggi se ne incontrano forse di meno di una volta.
Penso che qualcuno di voi abbia finito per affezionarsi a quello che incontra ogni giorno, perché sta sempre lì, sulla sua strada.
A me è successo proprio così …
Quando ancora lavoravo, diciamo circa vent'anni fa, per andare in ufficio prendevo normalmente la tangenziale Nord. Dovevo andare da San Fruttuoso di Monza verso la frazione San Rocco, attraversando alcuni incroci. Uno era particolarmente trafficato, tanto da obbligarmi ad attendere due o tre colpi di verde, prima di poter proseguire.
Non so quale fu la prima volta, ma da un certo giorno ho iniziato a far caso allo strano personaggio che sostava là, al centro della strada presso l’isola del semaforo sul marciapiede rialzato.
Sembrava uno dei soliti mendicanti che incontri agli incroci, però lui aveva qualcosa di particolare che lo faceva diverso.
Infatti, per chiedere l'elemosina, non si accostava alle macchine, le guardava soltanto e, restandosene fermo al suo posto, aspettava che lo si invitasse ad avvicinarsi.
Era un approccio davvero discreto che non recava fastidio a nessuno.
Allo stesso incrocio, ma sulla strada da attraversare, c’era un altro mendicante. Questo si comportava normalmente, cioè si affiancava alle macchine per chiedere qualcosa a parole o a gesti.
E si spostava rapidamente, avanti e indietro tra le auto in doppia fila, talvolta saltellando, pur trascinandosi una gamba: non so se per vera infermità o per impietosire gli automobilisti.
Cercando l'occasione, cioè sincronizzandomi coi colpi del semaforo, ho incominciato a fare l'elemosina al mendicate che stava sulla mia strada: aprivo il finestrino, lo chiamavo con un cenno della mano e, quando lui si avvicinava, gli davo 1000 lire (o un euro, qualche anno dopo).
Quando mi arrivava accanto potevo scorgere tutta la sua miseria. Sotto agli abiti scuri, fuori misura e malconci, c’era un uomo magrissimo, barba da radere, guance scavate, rari denti, tra i quali sembrava fosse passato un tornado. Non riusciva infatti a chiudere bene la bocca e gli colava qualche filo di saliva.
Dimostrava almeno sessanta anni; solo successivamente ho saputo che ne aveva poco più di quaranta.
Era una vista squallida, ma, superato il rigetto istintivo, mi metteva nel cuore una carica di umanità: come un mare profondo di pietà dove era bello tuffarmi dentro. Perché tutto di quel mendicante era brutto, ma il suo modo di fare, educato e semplice ispirava tanta tenerezza.
Descrivendolo a mia moglie, gli avevo dato un soprannome particolare, quello con cui da allora l’ho sempre affettuosamente citato: l’avevo soprannominato "Le Physique du Role".
Infatti lui aveva l’aspetto esteriore davvero adatto alla situazione, a ciò che faceva, e anche mia moglie, quando l’ha incontrato, ha concordato con me: il nome gli calzava davvero a pennello.
Pure a lei ispirava molta pena e suscitava un forte impulso di fargli l’elemosina.
Una volta in cui ho potuto parlargli senza dar fastidio agli altri automobilisti, gli ho chiesto come si chiamasse. Mi aveva risposto che il suo nome era Krishna, e che veniva dall'Albània (con l'accento sdrucciolo come pronunciano loro).
Ho sperato che non fosse ostaggio di qualche banda o racket che gestiva l’accattonaggio dei poveracci come lui, mandandoli sulle strade.
Sono riuscito anche a chiedergli dove abitasse in Italia e mi aveva detto vicino a Lambrate, dove viveva con la sua famiglia: la moglie, una bimba che andava a scuola e un figlio maschio che in qualche modo lavorava. Ho sperato che avesse una vera abitazione, perché non nascondo che col pensiero me li sono talvolta immaginati in una baracca sotto al cavalcavia della tangenziale.
Da allora, quando lo chiamavo e mi si avvicinava, gli dicevo sempre:
– Ciao Krishna, come va? –
e lui mi rispondeva:
– Tutto bene ... tutto bene – sbrodolandosi un po' di saliva.
Può sembrarvi strano, ma era diventato quasi un sodalizio: io gli facevo la mia elemosina e in cambio avevo da “Le Physique” un suo semplice saluto, che però mi dava una carica in più, perché proseguivo la mia strada verso l’ufficio un po’ più sereno: un’iniezione di umanità che mi faceva bene come una vitamina da prendere al mattino!
In occasione di qualche festa importante, Pasqua o Natale, gli lasciavo in mano, ben ripiegato, un regalino più consistente e ripartivo prima che lui se ne potesse rendere conto. Non volevo umiliarlo, restando ad osservare la sua reazione, né obbligarlo a ringraziarmi in maniera diversa del solito.
Negli ultimi tempi in cui ancora lavoravo, trovavo Krishna solo al mattino, mentre il suo “collega” sull’altra strada rimaneva a fare la questua fino all’ora dei rientri serali. Ho pensato che la debolezza fisica non consentisse a “Le Physique” di restare là per l’intera giornata.
Quando sono andato in pensione le mie occasioni di passare da quelle parti e di incontrarlo si sono rarefatte. Comunque, di tanto in tanto ero riuscito ancora a rivederlo, quando andavo a Vimercate o ad Agrate per tenere i miei corsi di informatica.
Dopo, però io mi sono trasferito, son venuto via da Monza e da allora non l’ho più incontrato.
Ogni tanto io e mia moglie lo ricordiamo e parliamo di lui.
Se sono fermo a un semaforo qui a Milano può venirmi istintivo di buttare lo sguardo lì attorno per cercarlo:
– Dove sei "Le Physique"? Dove sei finito? –
– Ti rivedrò, Krishna, almeno un'altra volta? –
G.A.