Vacanze Estive – da Milano a Chioggia

Ricordi d’infanzia – n.4


Che bello quando finalmente arrivava il momento di andare in vacanza!
I preparativi cominciavano però già qualche settimana prima della effettiva partenza. Noi tre fratelli (Gabriella la maggiore, io e Carlo il più piccolo) con la mamma ci trasferivamo al mare a Chioggia nella casa dei nonni materni, ogni anno da metà giugno a metà settembre. Il papà doveva restava invece a Milano per lavoro e ci raggiungeva solo per una o due settimane nel mese d’agosto.

I preparativi principali consistevano nel riempire e spedire in anticipo il baule con gli indumenti adatti al lungo soggiorno al mare, via corriere Domenichelli.
Il baule, normalmente nascosto sotto un panno a fiori, arredava il nostro corridoio. Tolto il panno, appariva la sua vera faccia: ben voluminoso, rinforzato in metallo verde, con fasce e borchie d’ottone. Occorreva svuotarlo dalle coperte e lenzuola che custodiva per tutti gli altri mesi, lavarlo e arieggiarlo per togliere l’odore di naftalina; quindi la mamma lo riempiva saggiamente con tutto il necessario. Per vari giorni restava così pronto nel corridoio, poi finalmente arrivavano i facchini del corriere e lo caricavano sul loro camion.
Se andava tutto bene ce lo ritrovavamo così, pronto a casa dei nonni.

Noi perciò andavamo alla stazione a prendere il treno per Venezia, soltanto con poche borse, con l’occorrente indispensabile al viaggio.
La mamma suggeriva di partire di martedì o di venerdì, perché, per detto popolare, erano i giorni della settimana meno propizi ai viaggi e si supponeva quindi i meno affollati.

Il papà quasi sempre riusciva ad accompagnarci al treno e ad aiutarci a prender posto nello scompartimento; poi, lui sul marciapiede e noi al finestrino, attendevamo il momento della partenza. Se eravamo in anticipo, poteva succedere che il papà mi facesse scendere qualche minuto e mi accompagnasse in testa al treno “a vedere la locomotiva”.

La locomotiva A quel tempo ce n’erano di bellissime ed enormi, per me una vera meraviglia! Tutte nere, lucide, qua e là i rossi dispositivi misteriosi, piccoli sbuffi di vapore bianco tra le ruote enormi, il rumore ritmato della caldaia sotto pressione, le facce sudate e quasi nere dei macchinisti …
Che peccato che non se ne vedano più! A guardarle veniva da pensare all’ingegno di quelli che le avevano inventate, alla fatica in fabbrica per costruirle, alla responsabilità di quelli che ogni giorno le facevano correre verso altre città lontane.
Tutto bello, ma a dire il vero io avevo anche un po’ di timore che il treno se ne partisse lasciandomi a terra, perciò era un sollievo quando il papà mi riportava nel vagone.

Col tempo avevo imparato a non perdermi i momenti più particolari del viaggio da Milano a Venezia, in aggiunta, ovviamente, al viavai dei viaggiatori ad ogni stazione e, in particolare, alla fermata principale di Verona.
Stavo quasi sempre al finestrino del corridoio; la mamma mi richiamava in continuazione ma non volevo perdermi la vista delle montagne (in realtà le Prealpi del Bresciano), poi, se pur in lontananza, il lago di Garda, l’attraversamento del Mincio sempre azzurro, le due gallerie sotto ai colli di Vicenza e alla fine il lungo ponte sulla laguna tra Mestre e Venezia.
Il viaggio in treno a quei tempi durava quasi tre ore; in treno si mangiava un panino e si arrivava alla stazione di Venezia quasi sempre nel primo pomeriggio.

Il passaggio successivo non era molto diverso da ciò che si deve fare al giorno d’oggi. Bisognava prendere il vaporetto di fronte alla stazione S.Lucia e andare alla Riva degli Schiavoni. Mi pare che ci fosse l’alternativa tra motoscafo e vaporetto: noi prendevamo quest’ultimo, più lento, ma più economico.

E che mondo completamente diverso per me milanese! Ero incantato a guardare i palazzi sull’acqua, le onde che battevano sui loro scalini, l’incrociarsi del vaporetto con le altre barche e i motoscafi che ondeggiavano nella nostra scia. Quante cose nuove: le manovre d’attracco alle fermate col marinaio che agganciava la fune alla bitta del pontile e lo faceva avvicinare, i viaggiatori e i carrelli di merce che salivano e scendevano, l’odore del salso, dell’acqua, del mare.

Si scendeva alla Riva degli Schiavoni; là ormeggiavano i battelli diretti alle altre località della laguna. Non dovendo passare sotto ai ponti di Venezia, erano più grandi e più alti dei vaporetti cittadini: mi sembra che fossero a tre piani, di cui uno sotto e due fuori dall’acqua.
Saggiamente noi eravamo là col giusto anticipo e, cosa assai rara per noi a quel tempo, ci si sedeva a prendere un gelato ai tavolini del bar lì di fronte. Penso che la mia mamma ripetesse con noi bambini eccezionalmente quello che lei stessa aveva fatto da piccola, nelle rare occasioni che lei chioggiotta aveva avuto di andare a Venezia.

La Riva di Pellestrina Poi, finalmente, ci si imbarcava e si partiva. Il viaggio durava quasi due ore e per me lo spettacolo si rinnovava anno dopo anno. L’itinerario toccava tutte le piccole cittadine e frazioni degli isolotti del lato verso il mare della laguna: Alberoni, Malamocco, S.Pietro in Volta, Pellestrina e Chioggia.
Il battello navigava a poche decine di metri dalla riva: potevo scorgere le barche lì ormeggiate, gli abitanti intenti nelle loro solite occupazioni e incuranti dei nostri sguardi curiosi, le case colorate vivacemente in rosso, arancio, giallo, azzurro e verde, le chiese bianche, gli alberi bassi degli orti.
Dall’altro lato del battello vedevo le file di pali dei vivai e delle peschiere, gli isolotti ottagonali fortificati, costruiti in difesa dei Turchi dalla Repubblica Veneta. Guardando indietro: vedevo la scia lasciata dal vaporetto e lo svolazzare dei gabbiani in cerca di cibo tra la schiuma bianca.

Man mano che ci si avvicinava alla meta finale cresceva la mia impazienza di arrivare. Dopo il lungo “murazzo” bianco che univa Pellestrina al Caroman e l’attraversamento dell’ultima Bocca di Porto, il battello cambiava direzione, facendo finalmente apparire ben chiaro il profilo familiare di Chioggia.
Allora la mamma mi richiamava accanto a sé e là dovevo restare perché si sbarcasse ordinati, tutti insieme.

Si attraccava al pontile di Vigo. Quasi sempre mia zia Luisa ed i miei cugini ci attendevano e ci salutavano dalla riva già mentre scendevamo. Poi baci e abbracci in abbondanza e ci si incamminava in festa verso la casa dei nonni.
Ricordo l’emozione nel risalire quella scala, dopo un anno intero trascorso lontano. Mi sembra di rivedere la nonna Maria nel corridoio, mentre arriva lentamente dondolandosi e sorridendo e il nonno Attilio che si asciuga gli occhi, perché non sa trattenere le lacrimucce di commozione.

E cominciava la vacanza!



G.A.

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