Ricordi d’infanzia – n.2
Quando ero bambino succedeva spesso che alla domenica pomeriggio uno di noi fratelli andasse col papà a fare una gita in campagna in bicicletta. Una volta toccava a me e un’altra a mia sorella.
Per noi era una grande gioia, perché durante la settimana lui faceva sempre tardi col lavoro e lo vedevamo poco; la domenica allora potevamo stare insieme e andare nel verde fuori città.
Finché eravamo piccini il papà ci portava sul sellino aggiunto sulla canna della sua bici, poi più grandicelli, usavamo la biciclettina di mia sorella, ma il babbo ci aiutava comunque, tirandoci o spingendoci con la sua mano sulla spalla.
Allora la campagna si estendeva già subito all’esterno della cinta ferroviaria di Milano. Dato che abitavamo nella zona di piazza Loreto, viale Abruzzi, con una pedalata di una mezzora si poteva arrivare ad esempio all’Idroscalo.
Talvolta andavamo proprio là, ma più spesso in posti più tranquilli lì attorno. C’erano varie mete; una era “la cava”, un piccolo specchio d’acqua formatosi dove tempo prima si estraeva la ghiaia, e poi abbandonato. Mi piaceva perché potevo osservare i pescatori che là non mancavano mai.
In primavera si preferiva spesso un'altra destinazione, che chiamavamo “il posto delle viole”. Sapevamo che là ce n’erano in abbondanza, bastava andare lungo il canale che faceva da confine tra due campi. Mentre io le raccoglievo e ne facevo un bel mazzetto da portare con orgoglio alla mamma, rimasta a casa sempre affaccendata, il papà passando oltre il fosso, andava a raccogliere il radicchio selvatico e ne faceva una sporta piena da cuocere e consumare per cena.
Da grande ho scoperto che quel radicchio altro non è che la pianta del dente di leone o tarassaco e, se trovavamo quello più buono, la pianta non ancora fiorita del papavero.
Mi ricordo che una volta avevo desiderato anch’io passare dall’altra parte del canale. Non ero in grado di fare il salto che faceva il papà; dovevo attraversarlo passando su uno stretto cordolo di cemento, ma il timore di cadere mi impediva di fare anche il più piccolo passo. Ho ancora nitida l’immagine del papà che dall'altra parte mi incita:
– dai Giorgetto, basta che fai un passo poi ti prendo io … guarda dritto davanti a te, non aver paura, guarda me, non in basso …! –
e ce l’avevo fatta, alla fine!
Dopo le nostre raccolte, di radicchio e di viole, ci fermavamo là ancora un poco. Io gironzolavo in cerca di farfalline e cavallette, mentre mio papà, seduto su qualche pietra, tracciava qualche schizzo per il suo lavoro, sui fogli di appunti che si portava sempre appresso.
Se era finito il tempo delle viole, poteva accadere che andassimo in una zona lì vicina, dove il canale d’irrigazione, la roggia, era stata rinforzata con argini di pietra per permettere di posizionare una piccola chiusa. Era affascinante fissare quell’acqua che correva veloce, limpidissima e che mostrava sul fondo lunghe, fitte alghe verdi, ondeggianti lente, lente nella corrente.
In superficie poi c’erano i ragni pattinatori (gerridi è il loro nome scientifico) e li guardavo meravigliato, chiedendomi come mai non affondassero e come facessero a muoversi così velocemente. Con la cattiveria innocente dei bambini tiravo loro qualche rametto o sassolino, per vederli fuggire in un guizzo sotto alle erbe dell’altra sponda.
Se cercavo con lo sguardo il papà, lo vedevo già impegnato nei suoi schizzi creativi. Quei suoi appunti li tracciava sul retro di qualche copia eliografica, ormai inutile, di disegni dell’ufficio.
Forse non sapete di che cosa si tratta: sono oggetti ormai superati con l’avvento delle fotocopiatrici e dei dispositivi grafici computerizzati. Quando queste strumenti non esistevano, per poter fare più copie di un disegno meccanico o edilizio, lo si disegnava in china su un foglio semitrasparente, tipo carta oleata, poi con un dispositivo a luce ultravioletta, vapori e carta particolari se ne facevano le copie, quante ne servivano.
Il risultato era molto caratteristico, perché il procedimento chimico trasformava le linee nere in linee blu su sfondo bianco. Con alcuni apparecchiature era addirittura blu tutto lo sfondo e bianche le linee del disegno (da lì il termine inglese blueprint, per indicare un progetto).
Il papà portava sempre con sé qualche foglio ottenuto facendo carta da appunti delle copie eliografiche ormai inutili. Io restavo incantato nel vedere dal lato del disegno originale residuo, la precisione dei tratti blu, dei piccoli numeri misteriosi, delle freccette di quota messe ad arte qua e là.
Ma ancor più affascinante per me, era vedere come sull’altro lato del foglio il papà, con la normale penna stilografica (le biro non esistevano ancora) fosse capace di tracciare dei cerchi precisi e disegnare ruote, ingranaggi con tutti i loro particolari meccanici più vari. Il papà era molto abile a disegnare ed era un creativo, un inventore, un progettista meccanico.
Mentre il babbo continuava coi suoi schizzi, io avevo tante cose divertenti da fare. Quando mi stancavo di giocherellare accanto alla roggia, c’erano gli alberi e i cespugli dell’argine e poi il grande prato.
Là era pieno di libellule: ormai è abbastanza difficile vederle. Dar la caccia alle libellule è molto più divertente che rincorrere le farfalle. Le farfalle sono più svelte e più furbe: se non hai un retino o un cappellino è difficile catturarle, oppure ci riesci ma rovini le ali a quelle poverette.
Con le libellule è invece più semplice: se le vedi appoggiate su uno stelo o un rametto ti ci puoi avvicinare di lato, lentamente, col pollice e l’indice in posizione e poi: zac … prenderle per un’ala trasparente.
Là ce n’erano per tutti i gusti: verdine, rossicce e azzurre; quest’ultime mi piacevano di più.
I bambini buoni poi, come la Vispa Teresa, le rilasciano in libertà.
Giuro che son quasi certo di non averne ammazzata nessuna, anzi, quando sono stato più grandicello, me ne sono fatta io una finta con la plastilina, cellophane e peli di spazzola (per le zampette) e l’ho appoggiata sulla cornice di un quadretto nella mia stanza.
Sembrava vera! E ingannavo i miei amici che ne restavano incantati.
Un'altra caccia particolare era quella alle cavallette. Il prato lì accanto ne era pieno.
Alcune facevano salti così lunghi da sembrare voli. Più lontano andavano e più era divertente inseguirle!
Le più comuni erano brune, ma ce n’erano di nere, rossicce, verdi e rigate di giallo.
Però le mie preferite erano delle simpatiche cavallette verdi un po’ più lunghe e snelle, meno frequenti delle altre, che io chiamavo i saltamartini. In realtà questo nome popolare vale per tutte le cavallette, ma a me avevano insegnato a darlo solo a quella specie.
Se trovavo un saltamartino lui doveva darsi un bel daffare per scappare lontano da me.
Quando si allungavano troppo le ombre degli alberi era il momento del rientro. C’era da pedalare per tornare a casa, ma lungo la strada c’erano ancora cose divertenti da vedere e poi, se arrivava la fatica, c’era la spintarella sulla spalla: l’aiuto del papà.
Se mi confronto coi bambini di oggi non posso che considerarmi fortunato. Molti passano un pomeriggio di festa giocando in città tra quattro mura o in un piccolo giardino di quartiere, per non pensare a quelli che trascorrono ore col telefonino o il videogioco in mano …
Forse i genitori li hanno portati in vacanza a vedere i cammelli, i coccodrilli, i delfini degli acquari, ma probabilmente non hanno mai giocato coi ragni pattinatori, le libellule o i saltamartini!
G.A.