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Un consulente finanziario vi ha mai suggerito di investire in derivati del
clima? Derivati del clima!? Proprio così: un prodotto finanziario (come un
bond, un’obbligazione) il cui rendimento è determinato dai mutamenti
climatici. A dire il vero, non si tratta di qualche strano investimento
speculativo, ma di una tecnica usata dalle società per gestire la loro
percentuale di rischio nel raccogliere finanziamenti quando i loro profitti
sono condizionati dai mutamenti climatici. Il campo dell’energia è un
esempio: se fa freddo, la gente consuma elettricità in maggior quantità; di
conseguenza le compagnie elettriche hanno maggiori profitti e possono pagare
un maggior tasso di interesse; se fa caldo, possono pagare meno.
Un altro esempio: la maggior parte di noi non ci pensa troppo a prendere un
aereo per andare in vacanza, o a trovare i propri parenti in un altro Paese.
Ma gli aerei sono costosi. Vengono acquistati per la maggior parte
attraverso meccanismi finanziari complessi, che coinvolgono consorzi di
banche e strutture di leasing ad alto contenuto tecnico che dipendono da
variazioni dell’incidenza del fattore fiscale. Senza queste operazioni
finanziarie, viaggiare in aereo sarebbe molto più costoso.
Che cosa ci dicono questi aneddoti? Il mondo della finanza non è pieno di
gente scaltra senza altro scopo nella vita che imbrogliare gli ignari
risparmiatori. Esso esiste perché finanziare una multinazionale è una
faccenda complicata. Una volta un esperto in fallimenti mi disse che la
maggior parte delle società, grandi o piccole, non fallisce perché non ha un
buon prodotto o non sa come venderlo; fallisce perché non sa procurarsi
abbastanza denaro, a un tasso adeguato, per finanziare le proprie attività.
Viceversa,
una accurata gestione finanziaria e la capacità di gestire il rischio
rendono una società in grado di competere come se fornisse un servizio
migliore o più economico dei suoi concorrenti.
Allora, che cosa non ha funzionato in tutti gli scandali che abbiamo visto
negli ultimi anni - Enron, Tyco, Worldcom e ora Parmalat? Credo che dobbiamo
distinguere tra due situazioni, che possono peraltro intrecciarsi. Da un
lato, come appare ovvio, ci sono casi di vera e propria truffa, laddove le
società hanno falsificato i bilanci o i manager hanno letteralmente
sottratto del denaro. Alcuni sostengono che questo sia il caso della
Parmalat. Ma dall’altro lato - e credo che ciò riguardi la maggior parte dei
casi - ci sono situazioni nella quali le società hanno forzato le regole al
limite, per conquistare un vantaggio nella competizione, e le cose sono
andate male. Naturalmente, nei bilanci periodici, una società tende a
presentare la propria situazione nella luce migliore, ed è estremamente
cauta nel rendere noti i rischi che potrebbe trovarsi ad affrontare. Il
problema è che ciò può indurre negli investitori false aspettative e quindi
ingannarli. Se i limiti sono portati troppo avanti e qualcosa non funziona,
è la catastrofe.
Quando ciò accade, è comprensibile accusare i manager avidi e i consiglieri.
Tuttavia, non necessariamente ciò esaurisce la questione. Per esempio, negli
anni Novanta divenne usuale dare ai manager dei bonus sotto forma di azioni
della società, sulla base dell’idea che se la remunerazione di un manager
fosse stata legata al prezzo delle azioni della propria società, costui
avrebbe fatto di tutto per far crescere il valore della società e di
conseguenza gli investitori ne avrebbero tratto vantaggio. Abbastanza
semplice. Coloro che investivano in borsa comprarono i titoli che rendevano
bene e si liberarono di quelli che rendevano meno. Voi cosa avreste
comprato, azioni di una società con rendimento medio o di una che prometteva
una crescita spettacolare? Inevitabilmente questo portò i manager a puntare
su piani a breve termine e a usare ogni tecnica disponibile per aumentare i
profitti dichiarati - e quindi il prezzo delle azioni - anno dopo anno.
Questa dinamica venne accentuata dalla pubblicazione trimestrale dei
profitti negli Stati Uniti. Dunque il problema non sta solo nei manager
avidi, ma anche negli investitori, e in una certa misura è connaturato a un
sistema basato sulla competizione.
Esiste una soluzione semplice?
Paradossalmente, proprio gli scandali stanno aiutando a trovare una via
d’uscita. Dopo il tracollo della Arthur Andersen a seguito dell’affare Enron,
le società vivono nel terrore di perdere la propria reputazione, e cercano
spasmodicamente di apparire “più bianche del bianco”, anche se ciò non
significa che non possano riemergere errori commessi in passato.
Ma forse l’unica risposta vera - come in ogni campo della vita - coinvolge
il livello personale. Per che cosa in definitiva lavoriamo? Solo per portare
a casa una retribuzione sempre maggiore, o c’è qualcosa di più essenziale su
cui si fonda la nostra integrità professionale? Delle regole sempre più
pesanti e rigide non daranno mai una risposta vera a questa domanda. Come
dice T.S. Eliot:
«Essi cercano sempre d’evadere / Dal buio esterno e interiore / Sognando
sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono»
(Cori da “La Rocca”, VI, 21-23).
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