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Giorgio
Vittadini,
(Presidente della Compagnia delle Opere),
Nei paesi sviluppati, come nella tradizione italiana, fino
alla legge Crispi, non è mai esistito il Welfare state. Per
parlare di qualcosa di nuovo e diverso dalla sanità,
dall’assistenza, dalle scuole si pensi a come vengono
affrontati i settori dei trasporti, del gas, dell’energia,
dell’acqua, nell’Italia soffocata dalla mortifera
antinomia tra privato e statale. Vi sono 6000 pagine su
Internet alla voce non-profit utilities, dove si parla di
depuratori, ferrovie, reti di gas, che vengono tutti gestiti
da società pubbliche e private, con la partecipazione di
utenti, con investitori sociali. Si parla di municipalità
che si muovono in un’ottica privatistica. Si discute del
possesso delle infrastutture e della gestione delle stesse,
di concessioni, di appalti. Il problema è di natura
tecnologica, economica, giuridica. Nulla, o quasi nulla, di
questo dibattito avviene in Italia, a destra o a sinistra,
localmente o a livello nazionale. Perché accade questo?
Perché ridursi, in questo Paese, alla monocultura di uno
stato inefficiente e ingiusto, di un privato che a livello
locale crea solo monopoli o oligopoli? Manca
una soggettività culturale, un desiderio, un’identità
che voglia usare le cose e finalizzarle ad un ideale che
comprenda i temi pubblici e privati, che li ami e li usi per
un’esperienza più grande, più autentica.
Occorre riconoscere che c’è un popolo ricco di bisogni,
di esigenze, di esperienze, di proposte concrete e non solo
teoriche. È una espressività sociale che non può essere
ridotta a un gioco di parte e di potere, dove si rimanda
sempre “al dopo” la risoluzione del problema. E si
rimanda sempre a chi ha il potere, che sia il privato
“forte” o un pubblico onnipresente. Invece, una
buona politica deve delimitare il perimetro delle possibilità,
mediare tra le linee emergenti, controllare la qualità e la
legalità. A
questo punto, riallargando il discorso a sanità,
assistenza, scuola, e ricomprendendo la pubblica utilità,
solo raramente la libertà di scelta dell’utente viene
garantita, viene esercitata fino in fondo diventando così
un principio di azione. Il finanziamento pubblico che
avvenga come buono scuola, come voucher nell’assistenza,
come esenzione fiscale, non può che seguire questo
principio della libera scelta, configurandosi come il modo
in cui le tasse (attraverso cui le persone pagano i servizi
collettivi) vengono spese. Se la persona sceglie
l’operatore statale diviene spesa pubblica, se la scelta
è verso il sistema profit diviene sostegno all’opera.
Fedeli al libro bianco
Purtroppo, in un momento in cui si sostiene di contenere la
spesa pubblica, siamo in un paese in cui il girotondo invoca
la dittatura dell’istituzione nella scuola chiamandola
pubblica; le leggi sull’assistenza danno soldi a pioggia
per favorire le burocrazie e i deficit
dell’amministrazione dei grandi comuni. Invece, la legge
popolare sul lavoro, nel solco dei provvedimenti che il
governo sta introducendo sulla flessibilità, è un primo
esempio che va nella giusta direzione, come del resto tutto
il libro bianco. Ma allora perché fissarsi sull’articolo
18, sia a destra che a sinistra? La
legge sull’impresa sociale approvata
dal governo e all’esame del Parlamento non è stata ancora
compresa nella sua importanza, nella sua centralità, anche
da chi continua a parlare di riforme del welfare. Si può
dire invece che rappresenti per il nostro Paese
un’autentica rivoluzione. Come molte realtà crescono
quasi nella disattenzione generale, così, se realmente
attuate, queste leggi mostreranno la loro forza di
cambiamento, vincendo ogni logica di schieramento e ogni
spirito di parte.
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