Terrorismo

 

Grandi interviste. André Glucksmann
 

Il nichilismo terrorista e la crisi occidentale


Gli attentati di Atocha e alle Torri Gemelle. L’affermazione che non ci sono più valori, verità. Tutti sintomi di una disgregazione dell’io. Di un nichilismo che pervade tutta la società. E la manda in crisi. Occidente contro occidente? Ne abbiamo parlato con uno dei più autorevoli intellettuali contemporanei
 

 
José Luis Restán e David Blázquez


La tesi fondamentale del suo pensiero, in questi ultimi tempi, è che il terrorismo sta sfidando il mondo occidentale, il mondo libero e democratico. Più precisamente è la sfida del nichilismo alla civiltà. Il pericolo che ci circonda è qualcosa di polimorfo, di non definitivamente descrivibile e di difficile denominazione, la cui fonte d’azione sarebbe quello che lei definisce nichilismo. Che cosa è il nichilismo che lei mette all’origine del terrorismo moderno e che abbiamo visto nella sua radicalità nell’attentato dell’11 marzo?
Il nichilismo terrorista non è un prodotto dell’islam, e non lo è semplicemente perché è un prodotto moderno e perché gli assassini ammazzano in primo luogo i propri musulmani. Ho seguito da vicino il terrorismo in Algeria e le vittime del terrorismo islamico sono bambini, contadini e donne musulmani. Proprio per questo non voglio ridurre il problema del terrorismo a qualcosa che nasce solo dal mondo islamico. Secondo me il terrorismo nichilista è innanzitutto la guerra contro i civili. E questa guerra c’era già nel ventesimo secolo nei regimi totalitari che si sono costituiti per terrorizzare la gente. Il grido che nasce da Manhattan, il grido che nasce dagli assassini di Atocha - «Viva la morte» - è in fondo uguale al comunicato che hanno scritto subito dopo gli attentati: «Voi amate la vita, noi amiamo la morte».
La novità di questo terrorismo è che si è convertito in un fenomeno mondiale. Questo terrorismo nichilista è stato descritto per primo da Dostoevskij nel suo romanzo I demoni. In questo romanzo si descrive un gruppo terrorista di gente molto eterogenea, ognuno con le sue credenze. Alcuni credevano in Dio, altri affermavano che era morto, quelli più in là credevano nella grande Russia, e quelli ancora più in là non credevano in niente…, ma tutti avevano in comune la volontà e il piacere della distruzione. Ed è proprio in questo che consiste il nichilismo. Il nichilismo non può essere solo l’amore a Dio, perché si può essere nichilista e credere in Dio (e questo è l’atteggiamento di Bin Laden) o non credere in niente, o credere nella razza (come i nazisti o i bolscevichi). In qualunque caso, quello che caratterizza il nichilismo è che non considera che ci sia male nel fare il male. Il nichilismo non si mette al di là del bene e del male, ma pensa che tutto quello che fa è bene. Bin Laden, infatti, si considera l’inviato di Dio. Ma si può anche essere atei e, quindi, anche senza saperlo, uno diventa Dio, perché come diceva sempre Dostoevskij: «Se Dio è morto, tutto è permesso». Il problema, quindi, non è credere o meno in Dio, ma il male. Il problema è che per il nichilismo non c’è il male, tutto è permesso, non ci sono tabù. Si può assassinare chiunque, in qualunque modo. Ricordate Atocha: erano lavoratori di quartieri poveri, tutti contro la guerra in Iraq, ma questo non ha impedito l’attacco dei terroristi.
Quello che definisco come nichilismo è la capacità di distruggere, di generare terrore per il piacere di distruggere, di generare paura.

In Europa ci sono molti intellettuali che, negli ultimi tempi, hanno proclamato un relativismo radicale, cioè una rottura coi vincoli di una società tradizionale. Tanti affermano che non c’è né verità né menzogna, che tutto è relativo: un cinismo radicale. È vero che questi intellettuali non sono favorevoli al terrorismo, ma, così facendo, non è che si sta coltivando una base culturale e morale incapace di opporsi alla sfida del terrorismo?
Ci sono due forme di nichilismo, diceva Nietszche. Da una parte, c’è quello attivo del terrorismo che tende a distruggere, quello che gode della distruzione, quello che grida «Viva la morte!». Dall’altra, c’è il nichilismo passivo, quello che lascia gridare i terroristi, quello che lascia gridare «Viva la morte!», che lascia distruggere le popolazioni. Questo nichilismo passivo è molto diffuso in l’Europa. C’è, dunque, una crisi europea - ma anche americana -, e quando dico che l’Ovest è contro l’Ovest lo dico perché veramente penso che ci sia una crisi di civiltà.
Voglio solo ricordare che Bin Laden ha chiesto agli europei di accettare il potere terroristico degli islamici senza opporsi all’islam, ritirando le truppe dall’Iraq. A mio parere il problema è che, se si inizia a cedere a questo ricatto, si finisce per cedere fino alla fine. Qui sorge il problema, per esempio, del velo nelle scuole, ma non solo. Bin Laden esige una parte della Spagna (Al-Andalus) che, secoli fa, apparteneva a un califfo di Baghdad. Il nichilismo passivo, che ho voluto esprimere nel titolo del mio ultimo libro (Occidente contro Occidente, Lindau; ndr), non è solo l’opposizione tra Europa e America: l’Europa è divisa, ognuno è diviso nella sua coscienza. C’è una grande divisione all’interno dell’Occidente, una divisione profonda, filosofica. Niente di nuovo: tutte le civiltà felici - e noi, dentro tutte le difficoltà, siamo i più felici nel mondo -, hanno voluto credere che la loro felicità era eterna, ma la felicità è sempre minacciata. Ciò che caratterizza l’Occidente dai tempi dei greci è la capacità di opporsi a chi minaccia la nostra felicità.

Lei, nel suo libro, dice che l’Europa non sa più dire “io”, non sa più chi è se stessa. Dice anche che le istituzioni europee non fanno altro che gestire un deserto concettuale. Ma sembra che tra i politici e gli intellettuali non ci sia un’intenzione chiara di voler definire ciò che è Europa, di voler riconoscere la propria tradizione e le proprie radici. Si può costruire il futuro della Ue sulla base della persona a prescindere da questa identità propria di Europa?
Credo che il problema dell’Europa adesso è che non è capace di valutare il male che la circonda, le disgrazie che possono accadere. È proprio per questo che rimaniamo stupiti davanti a fatti come quelli di Atocha, così come gli americani sono rimasti di pietra davanti a Manhattan. È questa coscienza della disgrazia comune quello che può unificare la civiltà occidentale, e non un’unica concezione su Dio o il Paradiso.

Anche se è stato così e non c’è stata quella unità come lei ha detto, quello che è vero è che c’erano tradizioni condivise, esperienze comuni. Ma adesso l’impressione che ho è che l’individuo è radicalmente isolato, come se le realtà sociali che trasmettevano la tradizione, il valore del mondo (dalla famiglia alle comunità religiose) non ci fossero più e il tessuto sociale fosse sempre più debole. Questa situazione è una base solida per poter lottare contro la grande sfida del nichilismo terrorista?
L’Europa dai greci non si è costruita da un tessuto sociale solido. Andate a rileggere i dialoghi di Platone e vedrete i problemi dei greci: adolescenti che dicevano quello che il papà e la mamma gli avevano raccontato. Questo lo vediamo nei dialoghi di Platone nella Grecia antica cinque secoli prima di Gesù. La crisi del tessuto sociale esiste non solo dalla modernità, ma dall’inizio dell’Occidente, e giustamente la capacità della cultura occidentale di far fronte a questa crisi è quello che l’ha tenuta unita.
L’alternativa è questa: far fronte a questa crisi o dormire tranquillamente facendo finta di non vedere i problemi. La capacità di far fronte alle sfide dell’attualità è la cosa più importante dell’Europa (come si vede nelle tragedie greche, in Omero...). Ma, dall’altra parte, l’errore più grande è quello di chiudere gli occhi davanti al mondo.
Durante la Seconda Guerra mondiale, nel 1938 e 1939, la Francia viveva in un mondo pacifico e idilliaco, e cantava una canzone popolare che diceva: «Tutto va molto bene!». E quando il Reich cadde, l’Europa e l’America cantarono: «I grandi conflitti sono finiti! La violenza non c’è più, ci sono solo piccoli conflitti, conflitti di bassa intensità». Durante i dieci anni tra la caduta del muro di Berlino e il terribile “successo” di Manhattan, gli intellettuali americani dicevano: «Viviamo la fine dei conflitti». E non era vero. Ho sempre detto che lasciare uccidere le donne in Afghanistan, lasciare i suoi dittatori, non era solo un problema degli afghani, ma anche degli americani di Manhattan.

Come giudica il fenomeno del pacifismo che ha invaso le nostre città dopo l’intervento degli Usa in Iraq?
Sono molto critico col pacifismo da un po’ di anni. Cominciai criticando i pacifisti tedeschi quando scesero in piazza a manifestare contro i missili americani, contro i missili che ci difendevano dai missili sovietici. L’espressione make tea, but no war è simpatica, ma non è servita a niente. Fare il tea è buono per digerire, ma non risolve i problemi. I pacifisti non sono veri pacifisti, se fossero veri non si sarebbero alzati contro l’intervento in Iraq, dimenticandosi di protestare contro la peggiore delle guerre che da dieci anni si sta sviluppando per una potenza particolarmente importante, che è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la Russia, contro il popolo ceceno. Dov’erano i pacifisti quando Grozny fu distrutta? Dove sono quando un popolo, come il popolo ceceno, è minacciato? Certamente, i ceceni non sono tanti, al massimo un milione di persone, ma è questa una ragione per non chiedere la pace in Cecenia? La ragione fondamentale per la quale la gente riempie le strade per la pace in Iraq, ma non per un popolo che è vicino alla sua distruzione, è che in un caso si dovrebbe uscire per strada contro Putin, ma a nessuno interessa manifestare contro Putin, e nell’altro caso bisogna manifestare contro Bush. I pacifisti non sono pacifisti, ma antiamericani e anti-Bush.
Non capisco come si può accettare che non si difenda la popolazione cecena, quando tutti si autoproclamano “amici della pace”. C’è una grande ipocrisia e una grande incoscienza da parte dei manifestanti che si proclamano pacifisti. Non è niente di nuovo, ci sono state manifestazioni pacifiste pro-comuniste nel ’47 e contro le armi nucleari (perché in quel momento le avevano solo gli Usa), ma dal momento in cui Stalin ha avuto anche lui un armamento nucleare, nessuno si è ricordato di manifestare fino agli anni 80. L’idea che il pacifismo affermi di essere una verità assoluta, dovrebbe essere già motivo di sfiducia. Ho sempre chiesto ai pacifisti perché non hanno mai manifestato contro la guerra in Cecenia; ma non ho mai avuto risposta, mentre il popolo ceceno è distrutto nella solitudine più assoluta.

Facciamo un passo indietro. Lei ha citato come caratteristica propria della storia d’Europa il sottomettere tutto alla critica. Ma la critica si è sempre sostenuta su un punto previo, cioè sul fatto che c’era una tradizione che si metteva in discussione. C’è invece un nucleo di certezze che è sempre stato intangibile: l’idea che uccidere è male, l’idea che quello che succede nel Congo c’entra con me che sono a Madrid. Ho l’impressione che non c’è uno sforzo culturale educativo che generi quel tipo di coscienza. Vorrei chiedere, da dove partire oggi? Dove trovare energia per opporsi a una sfida come questa, se non c’è niente di positivo da cui partire?
Credo che l’Europa si sia sempre unificata “contro” e non “in favore di”, ma, ad esempio, quando uno combatte la malattia è perché ha una certa idea di che cosa sia la salute. Essere in democrazia vuol dire vivere nel regime meno cattivo di tutti, non vuol dire vivere nel Paradiso, perché la democrazia è quello che ci permette di lottare contro certi mali, contro l’oppressione. Ma il bene è relativo al male. I medici non sanno che cosa sia la salute perfetta. Quando si vuole vivere la salute perfetta non si è medico bensì ciarlatano. Secondo me in politica e filosofia è lo stesso, abbiamo un’idea di quello che è falso. Anche se non abbiamo un’idea di che cosa sia la verità eterna, sappiamo che due più due non fa cinque, abbiamo una certa idea del male, sappiamo che i campi di concentramento sono un male assoluto, e quindi abbiamo punti sui quali poterci unire e definire una vita meno cattiva. La saggezza dell’Occidente è questa.
Io sono meno positivo di lei, perché non penso che le radici e l’idea di bene le abbiamo perse 10 o 20 anni fa. Basta vedere che lo scenario dove si sono perpetrati i massacri più grandi nel ventesimo secolo è l’Europa. In Europa è nato Hitler, è nato il comunismo con i suoi milioni di morti, e quindi non siamo innocenti, non siamo degli angeli, abbiamo fatto guerre di religione molto prima dell’islam, siamo stati capaci di genocidi molto prima del resto del mondo. Infatti, l’idea di genocidio c’era già nella letteratura greca, nell’Odissea e nell’Iliade, dove si distrugge tutta la città di Troia. Il peggiore dei mali è quello di chiudere gli occhi di fronte al male che commettiamo e che siamo capaci di pensare.
Shakespeare non ci dice che tutto il mondo è buono e con delle grandi intenzioni, non ci dice che basta bere del tè per fare scomparire la violenza. Shakespeare analizza le radici dei comportamenti violenti: l’invidia, la malizia… Questo è la cultura: aprire gli occhi anche quando questo fa male. E secondo me è questo che manca oggi. Siamo pieni di buone intenzioni, abbiamo grandi idee sulla nostra innocenza, ma abbiamo lasciato spazio libero nel mondo perché si commettessero dei grandi crimini, mentre noi festeggiavamo la fine delle guerre e il regno della ragione. Né l’Onu, né gli Usa, né l’Europa sono intervenuti nell’ultimo grande genocidio del ventesimo secolo: Ruanda. Lì, per tre mesi, si ammazzavano 10.000 tutsi al giorno, cioè, dopo tre mesi, un milione. E quindi non ci possiamo proclamare innocenti, ma dobbiamo aprire gli occhi sulle nostre complicità.
Ci troviamo davanti a uno dei momenti più importanti della storia. Riflettete su questo: subito dopo gli attentati delle Twin Towers la gente chiamò quel posto Ground Zero. Questo era il termine usato per chiamare il luogo dove esplodevano le bombe atomiche che si lanciavano prima di Hiroshima. La gente, vedendo gli attentati dell’11 settembre sentì di essere davanti a un potere di devastazione analogo a quello delle bombe H. Nel 1945 gli uomini hanno scoperto che la storia poteva finire, che l’uomo poteva finire con la sua propria esistenza. Prima di allora solo il potere di Dio poteva mettere fine all’umanità, ma non si poteva concepire che l’uomo potesse lui porre fine all’avventura umana. Nel 1945 nacque una grande responsabilità per il paese che aveva la bomba H. Da Manhattan si è scoperto che il potere di devastazione e la volontà di male sono molto più diffuse di quanto si pensava. Non c’è più un monopolio nelle mani delle nazioni con capacità nucleare. La potenza della bomba nucleare è nelle mani del primo matto. Quello che è successo a Hiroshima può succedere di nuovo. Atocha sarebbe stata molto peggio se i treni non fossero stati in ritardo. Potevano morire circa 10.000 persone. C’è un grande potere di devastazione in mano a teste vuote che possono uccidere a basso prezzo, perché bisogna non dimenticare che gli attentati delle Twin Towers sono costati quello che costano due appartamenti a Madrid. Adesso siamo molto più responsabili di quanto lo eravamo prima. Non dico che si debba essere ottimisti o pessimisti, quello che dico è che bisogna essere molto più responsabili.
Siamo passati dall’era della bomba nucleare (bomba H) a quella della bomba umana (bomba h [umano in francese comincia con la H, humain; ndr]).
La tentazione è girare lo sguardo e tentare di vivere felici come se niente fosse successo, ma quando uno cede a questa tentazione la realtà ci cade addosso come le Twin Towers o Atocha. Bisogna essere sentinelle dei pericoli.
 
 

Terrorismo: «André Glucksmann: Il nichilismo terrorista e la crisi occidentale», José Luis Restán e David Blázquez, Tracce, Giugno 2004

 

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