Terrorismo

 

Attentato in Iraq - Nassiriya

Nel nome del niente

 

Qual è il filo rosso che lega Nassiriya a Istanbul? E' una concezione ideologica e gnostica della religione. La “teologia della morte” è una catastrofe. Per musulmani e occidentali
 
 
di Bottarelli Mauro, Jacob Giovanna e Piccinini Pietro


Cosa unisce il commando suicida che l’11 settembre 2001 polverizzò le Torri gemelle a Wafa Idriss, la prima donna martire palestinese che il 27 gennaio 2002 si fece esplodere nel pieno centro di Gerusalemme? E cosa lega i kamikaze che il 13 novembre scorso hanno fatto strage di militari italiani a Nassiriya con gli assassini suicidi che tre giorni dopo hanno colpito due sinagoghe a Istanbul, massacrando venti persone e ferendone quasi trecento? E ancora, quale filo rosso lega i terroristi che in Irak si lanciano con la loro autobomba contro le sedi dell’Onu e della Croce Rossa?

Quel filo che lega Nassiriya a Istanbul
L’opinione più diffusa è che fra Al Qaeda e Hamas, tra i terroristi sucidi di Nassiriya e quelli di Gerusalemme non ci sia relazione alcuna, e che sia anzi immorale volerne cercare una. «Non accetto moralmente di mettere sullo stesso piano il miliardario Bin Laden con la povera ragazza che si è immolata con una bomba - disse tempo fa il senatore Giulio Andreotti -. Se fossi stato in un campo profughi per cinquant’anni, con la mia famiglia, i miei figli, non avrei avuto bisogno dell’aiuto dell’Iran per trasformarmi in un uomo-bomba. Starei attento a mischiare questo fenomeno con quello del terrorismo». E anche oggi è molto in voga l’uso della qualifica di “guerriglieri” e “resistenza” per i terroristi che colpiscono in Irak. Come stanno le cose, allora? Scrive Giuliano Ferrara su Il Foglio di giovedì 13 ottobre «questi, che i giornalisti pigri (il giorno dopo l’Elefantino si correggerà: “pigri? No, mi è scappato un eufemismo: senza vergogna”, ndr) chiamano “resistenza”, sono banditi che bombardano prima le torri del libero mercato, poi l’Onu e la Croce Rossa e le ambasciate, sono fanatici pieni di soldi e di armi… Sono tipi che non si fermano di fronte a niente, perché il Niente travestito da ortodossia religiosa, il niente che tradisce i princìpi di bellezza e di pace di ogni religione, è la sostanza della loro vita devota alla morte». Anche Marina Corradi, citando André Glucksmann, nel suo fondo su Avvenire dello stesso giorno, osserva che «gli europei credono che basti dire “no alla guerra” per esserne al riparo. Gli europei non la vogliono sentire nominare ma la guerra è là, non ha mai lasciato il nostro orizzonte, e bisogna saperla guardare negli occhi… Questo terrorismo pare volere solo distruggere, pare la nuova forma del nichilismo nella storia». E Stefano Folli, nell’editoriale sul Corriere della Sera di domenica scorsa, ammette: «Ormai nella logica e anche nella dinamica (il camion imbottito d’esplosivo, l’autista suicida, il fanatismo) gli attentati si assomigliano tutti: nel deserto irakeno, alle porte d’Europa o nelle strade di Gerusalemme».

Una teologia (gnostica) della morte
Ma di cosa si nutre questo terrorismo così spaventosamente uguale da Gerusalemme a Nassiriya, da Nairobi a Giakarta, da New York a Istanbul? Dove e come si è trovato il modo di “mettere in moto il deserto”, trasformando degli esseri umani in un “nulla imbottito di esplosivo”? è la “teologia della morte” dicono gli esperti. E quello che più sconvolge è che essa è il prodotto di una élite che sa maneggiare con arte sofisticata la propaganda ideologica e il registro di un’utopia sanguinaria che sembra parlare due lingue: una “teologica” diretta alle masse musulmane, l’altra “giustizialista”, diretta alle masse occidentali.
Secondo Carlo Panella, autore del libro I piccoli martiri assassini di Allah, il virus determinante lo sviluppo di una vera e propria “teologia della morte” sarebbe una filosofia eterogenea all’islam: lo gnosticismo, una eresia ricorrente nel mondo occidentale giudeo-cristiano e che conduce alla svalutazione radicale della realtà visibile, concepita come puro strumento per la realizzazione di una realtà superiore, la cui conoscenza e la cui partecipazione è riservata solo ad alcuni eletti. In incubazione da secoli, questo virus sarebbe esploso con la rivoluzione khomeinista del 1978. Nel 1982, nella guerra contro l’Irak, Khomeini consente ai bambini al di sopra dei dodici anni di arruolarsi nelle forze armate senza il consenso del padre. «In un paese in cui la mistica della morte è ormai martellante, bambini e adolescenti kamikaze, col nastro rosso del martirio sulla testa, vengono mandati in avanscoperta sui campi minati e attirati oltre le linee nemiche da un attore vestito da profeta che, mostrando le “chiavi del paradiso”, corre in lontananza, verso il tramonto, su di un cavallo bianco. La delusione dei pochi che sopravvivono alle mine e al fuoco nemico è tale che spesso rifiutano le cure mediche. Così la mistica della morte seduce anche i bambini».

Il virus khomeinista (e i sociologismi occidentali)
Il professor Gabriele Crespi, islamista all’Università Cattolica di Milano, spiega a Tempi: «In Occidente non comprendiamo l’ideologia che fonda il terrorismo islamico suicida perché siamo vittime dei nostri schemi razionalistici e sociologici». Sono errori di prospettiva, i nostri. Quali? «Il primo consiste nel credere che colui che combatte il jihad, una volta ottenuto il suo obiettivo politico o militare, si fermerà; il secondo è che pensiamo che il terrorista sia un emarginato, un disperato che non ha più nulla da perdere. In realtà il jihad non mira anzitutto a una vittoria politica, militare o sociale. Un libricino molto diffuso tra gli aspiranti kamikaze di Al Qaeda, How can I train myself for jihad?, insegna che lo scopo della guerra santa “è la sola soddisfazione di Allah”».
Anche il fondatore del Cesnur (Centro per gli studi sulle nuove religioni) Massimo Introvigne, è convinto che il terrorismo islamico sia il frutto della concezione della storia che il fondamentalismo sciita ha diffuso nel mondo arabo. Spiega a Tempi: «L’idea del martirio come supremo atto di conoscenza, è già nei sermoni di Khomeini e nei manifesti degli Hezbollah libanesi degli anni Ottanta, i quali proclamavano apertamente che “La nostra forza è che l’Occidente ama la vita, noi amiamo la morte”.
Raccogliendo materiale per il libro che ho scritto su Hamas, ho intervistato alcuni membri del movimento terrorista palestinese. Dalle loro risposte emerge come la morte, il sacrificio di sé per uccidere il nemico sia per i martiri un’esperienza profondamente e genuinamente religiosa. L’Occidente dovrebbe finalmente trovare il coraggio di abbandonare le teorie che individuano nel disagio economico e sociale la causa della diffusione del terrorismo tra i musulmani fondamentalisti. Non è l’assegnino del leader di turno (o l’assegnone di Saddam Hussein) destinato alla famiglia dello shaid a convincere quest’ultimo a farsi esplodere su un autobus a Gerusalemme. E la teoria delle condizioni sociali disagiate funziona come movente degli attentati suicidi solo nel telegiornale Rai. Tant’è che gli shaid provengono per lo più da famiglie che noi definiremmo “borghesi”, di medici, avvocati, professionisti. Due militanti di Hamas che si sono fatti saltare in aria erano addirittura tecnicamente veri e propri milionari».

Al Qaeda o cellule impazzite?
Il martirio-assassinio sarebbe dunque uno strumento di un’ideologia rivoluzionaria finalizzata all’imposizione della legge islamica (sharia) prima in un solo paese, l’Iran, e poi, gradualmente, in tutto il mondo. E così arriviamo al tragico paradosso della situazione attuale: mentre il regime sciita iraniano sta faticosamente tentando di affrancarsi dalla rivoluzione khomeinista, a subire il contagio è il cuore sunnita del mondo arabo. Con un salto di qualità: se i ragazzi di Khomeini colpivano nemici in uniforme, venti anni dopo i ragazzi palestinesi, allevati nelle scuole di martirio dette “campi del Paradiso”, colpiscono indiscriminatamente anche i civili.
Protagonista assoluto di questa diffusione della “teologia della morte” è Osama Bin Laden, fondatore del “Fronte Islamico Mondiale” e di quella Internazionale del terrore che proclama il “jihad globale” contro gli ebrei e i crociati attraverso Al Qaeda, la rete terroristica che rifornisce i movimenti radicali affiliati di una strategia unitaria e dei mezzi per portarla a termine.
L’obiettivo dell’islamismo radicale è il dominio totalitario del mondo. Spiega Crespi: «Abu Qatada, considerato l’emissario di Al Qaeda in Europa, ha definito molto chiaramente che cosa sia il “jihad globale”, la sfida all’Occidente ma anche alle comunità islamiche occidentalizzate. Qatada dipinge un mondo ormai diviso in due. La parte infedele può decidere di convertirsi oppure di essere eliminata con le armi. Egli afferma: “il jihad è la speranza del futuro”, perché è lo strumento attraverso cui l’islam controllerà tutto il mondo».

Gli islamisti minacciano l’Islam
Il professor Luca Montecchi, preside del liceo scientifico Sacro Cuore di Milano ed esperto arabista, ci tiene a sottolineare a Tempi che l’evoluzione del fondamentalismo islamico che ha portato al fenomeno Al Qaeda, non è che una delle vie possibili di interpretazione dell’islam. «In Kazakistan per esempio sta crescendo un islam completamente diverso da quello radicale di Bin Laden». Montecchi è d’accordo con Panella che attribuisce allo gnosticismo un’influenza determinante sull’ideologia fondamentalista radicale. «Semplificando, sono tre i passaggi attraverso cui passa il successo del movimento terrorista: la nascita dei Fratelli musulmani negli anni Venti, la rivoluzione khomeinista del ‘78-’79 e infine la profezia armata di Osama Bin Laden. Bin Laden è (o è stato, perché chi non muore si rivede, ndr) un maestro di applicazione della dottrina, non un maestro di dottrina. Infatti è sempre accompagnato dai suoi mentori, in particolare dal celebre mullah Omar. Ebbene, la profezia di Bin Laden è una profezia “armata”. Essa offre cioè ai musulmani un’immagine attuale del Profeta: il Profeta è sempre “armato”, capo religioso e capo militare. In questo senso i messaggi trasmessi dal padre di Al Qaeda alle varie televisioni, come sostiene l’islamista francese Gilles Kepel in un suo studio approfondito, sono curati nei minimi dettagli». E comunque, prosegue Montecchi commentando il concetto di “teologia della morte”, «per comprendere la straordinaria diffusione delle idee radicali di Bin Laden bisogna considerare anche il fatto che la terminologia politica da lui utilizzata nella profezia ha ridestato in molti musulmani un senso di liberazione. Da quasi un secolo infatti le masse islamiche mancano di un’autorità universale e questo significa che esse sono state abbandonate perché l’instaurazione della sharia nel mondo deve accadere per intermediazione del califfato. Non importa che esso assuma la medesima forma politica che aveva prima che Ataturk vi ponesse fine nel 1924: il califfo è guida unica dell’islam perché è il vicario, il successore del Profeta. È da notare anche che il termine sharia (letteralmente, “la via di Allah”) è una metafora che indica la volontà di Allah. Perciò la diffusione della sharia equivale per i musulmani alla diffusione della presenza di Dio, dal momento che Egli è inconoscibile e si manifesta solo attraverso la volontà, la legge».

L’obiettivo dei terroristi? Il caos
Il fondatore del Cesnur, Massimo Introvigne, ritiene che le autobomba lanciate contro il contingente italiano a Nassiriya sono il rigurgito di un Al Qaeda ormai decapitata. «Gli americani hanno vinto perché sono riusciti a tagliare il collegamento fra le testa e le gambe del movimento. Purtroppo però le gambe, quando vengono sradicate dal resto del corpo, anche solo come riflesso nervoso, scalciano. Il territorio di Nassiriya è il territorio della città in assoluto più avversa al regime di Saddam Hussein: il fatto che l’attentato contro la forza di pace italiana sia stato compiuto proprio in quest’area lascia pensare più ad Al Qaeda che al partito Baath. Dall’11 settembre fino all’invasione dell’Afghanistan si poteva risalire fino agli organizzatori degli attentati. Adesso la guerra contro Al Qaeda diventa per certi versi più impegnativa, perché ci si trova di fronte a cellule impazzite che agiscono senza una strategia precisa; è il terrorismo per il terrorismo, perché il terrorismo è la loro vocazione. Dalle Filippine al Marocco, i combattenti di Al Qaeda hanno tutti facce simili tra loro, sguardi familiari, ma nessun coordinamento».
La situazione irakena rischia dunque di precipitare verso una sorta di “anarchia del terrore”? Sì, ammette Glucksmann, il terrore «fa la politica del tanto peggio tanto meglio» e «tutti coloro che dicono “meglio il caos che i marines a Baghdad” fanno la politica del “tanto peggio tanto meglio”». Il quadro di Glucksmann risulta spaventosamente coerente se è vero che, come dice Crespi a Tempi, «si ritiene che attualmente siano parecchie migliaia i terroristi penetrati in Irak dai paesi confinanti».
 
 

Terrorismo: «Attentato in Iraq - Nassiriya. Nel nome del niente», di Bottarelli Mauro, Jacob Giovanna e Piccinini Pietro, Tempi, Numero: 47 - 20 Novembre 2003

 

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