Terrorismo

 

Alle radici del terrorismo
 

Grigia è la teoria. Verde è l’albero della vita. La teoria di quella sinistra che nega i fatti e non riconosce il terrore totalitario
 
 
di Casadei Rodolfo


L'ennesima occasione di revisione politica perduta per la sinistra, un motivo in più di inquietudine per tutti noi. L’esito del dibattito esploso nella sinistra antagonista e in parte di quella storica dopo l’arresto nelle settimane scorse di numerosi presunti terroristi della colonna romano-toscana delle Brigate Rosse volge decisamente al peggio. Ha avuto un inizio molto incoraggiante con Sergio Segio, ex Prima Linea reduce da una pena di 22 anni di carcere, che ha lanciato l’allarme: «le Brigate Rosse… sono e coabitano nel Movimento… Sono interne ai loro luoghi, alle loro sedi, al loro dibattito politico… le loro storie politiche sono il calco di battaglie e parole d’ordine, patrimonio del sindacalismo di base e del Movimento»; e ha invitato ad aprire «una dura battaglia politica che affermi l’impraticabilità ed il carattere eticamente e storicamente inaccettabile della lotta armata». E si è - metaforicamente - concluso nel peggiore dei modi, con Luca Casarini leader dei “Disobbedienti” e Piero Bernocchi leader dei Cobas che gli gridano “Taci, assassino!” e coi frequentatori del sito Internet de L’espresso (non di Indymedia!) che sottoscrivono al 32% l’affermazione secondo cui le Brigate Rosse «sono il frutto del neo-capitalismo che ha creato la flessibilità selvaggia» e che di fronte all’ipotesi della manifestazione unitaria del 19 novembre contro il terrorismo rispondono al 23%, echeggiando un famigerato slogan di fine anni Settanta, “né con Berlusconi, né con le Br”.

Siamo alle solite. Ogni volta che in Italia la questione del terrorismo dei “comunisti combattenti” si riaffaccia prepotentemente alla ribalta, le coscienze più oneste e meno ideologiche della sinistra - spesso maturate attraverso dolorosi percorsi personali - invitano all’autocritica decisiva, che è solo quella che fa i conti con l’appartenenza dei terroristi alla loro medesima area politico-culturale. Ma subito prendono il sopravvento coloro che ribaltano sull’avversario politico (il neo-capitalismo, il “sistema”) la responsabilità ultima del terrorismo “rosso” e che rivendicano il diritto di continuare a criticare il sistema dominante in termini radicali, definendolo criminale e assassino, senza preoccuparsi per nulla della legittimazione, politica e morale, che in questo modo conferiscono al fenomeno brigatista.

Per la Rossanda il vero assassino è il capitalismo
Anche stavolta è andata così. Segio non è l’unico che ha gettato un sasso nello stagno. Marco Revelli ha dichiarato: «Dal Movimento non è ancora venuta una condanna esplicita della violenza e della lotta armata come forma di lotta». Giuseppe D’Avanzo ha scritto: «Il nodo della violenza politica come strumento legittimo di lotta non è stato ancora sciolto né rimosso negli ambiti più radicali della sinistra, del sindacato, del Movimento… un’idea di violenza come possibile esito della politica non è illegittima in quegli ambiti e chi ne è portatore non è privato del certificato di cittadinanza che gli permette di dire: sono nel sindacato, nel Movimento; sono di sinistra». Altri, come Adriano Sofri, hanno messo in guardia rispetto alle velleità di palingenesi contenute nello slogan “un altro mondo è possibile”, che potrebbero condurre ad un «tragico equivoco». Le reazioni non si sono fatte attendere, e ricalcano tutte un medesimo schema: indignato rigetto di qualunque ipotetica affinità con le Br, e tuttavia orgogliosa rivendicazione di una teoria e di una prassi oltranziste. Casarini dice: «Chi ha ucciso Biagi e D’Antona è un nostro nemico», ma aggiunge anche: «La violenza è un connotato del nostro vivere quotidiano… Se lo Stato non esercitasse violenza per reprimere il dissenso ed il conflitto sociale, non otterrebbe violenza in cambio… siamo condannati alla violenza da una condizione sociale e politica di violenza». E Rossana Rossanda, che negli anni Settanta aveva per prima denunciato l’appartenenza dei brigatisti all’“album di famiglia” comunista, stavolta reagisce a muso duro: «I terroristi di oggi mi sembrano estranei alla cultura comunista… Al mio amico Marco Revelli, così come a Sergio Segio o ad Adriano Sofri, dico: per cortesia, non fatemi lezioni di morale… Si può - si deve - criticare le storture dell’economia globalizzata senza per questo cedere al terrorismo. Da vecchia marxista, non sento di dovermi giustificare quando dico: siamo davanti a un sistema di produzione assassino… Quando fai il bagno a Lampedusa e t’imbatti nel cadavere di un emigrato, cos’è se non violenza del sistema?… contro questo sistema occorre una spallata». La contraddizione interna dei discorsi di Casarini e della Rossanda stride come un coltello sulla maiolica, la loro reazione scandalizzata agli appelli all’autocritica suona spudorata. Se alle filippiche anticomuniste di Silvio Berlusconi corrispondessero, nella società italiana, videocassette esplosive inviate nelle sedi dei partiti neo e post-comunisti, e se alle tirate di Umberto Bossi contro il centralismo romano capitasse di coincidere con omicidi mirati di prefetti e Pubblici Ministeri ostili alla causa padana, possiamo essere certi che i due personaggi sarebbero chiamati, forse non solo metaforicamente, sul banco degli imputati. Invece la sottolineatura della legittimazione morale e politica che i discorsi di Casarini e della Rossanda forniscono alle Brigate Rosse nello stesso tempo in cui formalmente le scomunicano suscita reazioni indignate, è tacciata di strumentalità e di ricatto morale. Come mai? La spiegazione non è semplice.

Insuperabile doppiezza e presunzione ideologica
Intanto c’è da notare che le posizioni suddette rientrano nella tradizione della “doppiezza” comunista, dove al termine non va necessariamente assegnata una connotazione morale peggiorativa, ma piuttosto tragica. La famosa “doppiezza togliattiana” era molto di più di un’astuzia tattica. La prassi politica per cui i comunisti italiani, come scrive Carlo Ginzburg, «dopo il 1945 da un lato continuavano a ribadire fedeltà agli ideali rivoluzionari, dall’altro agivano in difesa della democrazia borghese», contiene un elemento di dramma umano che va ben al di là dell’opportunismo politico, anche se l’opportunismo, sia umano che politico, c’era eccome, come confessa dolentemente Vittorio Foa. Antifascista capace di affrontare il carcere per le sue idee, è stato uno dei primi nella sinistra italiana a tentare di emanciparsi dallo stalinismo, ma anche uno dei primi a rinunciare a uscire dalla doppiezza: accettò le correzioni che Togliatti gli chiedeva ad un suo articolo su Rinascita in cui scriveva di Stalin. Nel libro-intervista Un dialogo ammette: «Vi sono dei casi in cui tu senti di non essere creduto, senti che dicendo certe cose tu perdi una fiducia possibile nel futuro dei rapporti con gli amici e con i compagni». Per un Foa che confessa il dramma e le sue conseguenze schizofreniche c’è un Sofri che confessa il dramma ma cerca la quadratura del cerchio: «è un gran paradosso quello che pretende di conciliare una diagnosi estrema con una terapia dolce, e tuttavia è il punto». Sarà il punto, ma resta anzitutto un paradosso, e come tutti i paradossi si nega da sé e rimanda l’immagine di un soggetto schizofrenico.
Che cos’è, allora, che tiene in piedi tutti questi schizofrenici di vario tipo? è, verosimilmente, la presunzione di possedere la conoscenza della direzione del movimento della storia, che è il tratto che accomuna tutti coloro che interpretano la realtà alla luce di un’ideologia. è questa conoscenza, che per i comunisti proviene dal materialismo storico, che permette di alleggerire la coscienza da molti scrupoli. Al tempo di Lev Trotskij permetteva di dire «è morale tutto ciò che promuove la rivoluzione, è immorale tutto ciò che la frena», e di agire efferatamente di conseguenza. Oggi l’ideologia permette al 32% dei sondati da L’espresso di attribuire al capitalismo la responsabilità dell’esistenza delle Brigate Rosse, a Pietro Ingrao di dire: «I terroristi di oggi mi interessano poco, mi allarma di più che il capo della più grande potenza del mondo abbia fatto della guerra il perno della sua politica», alla Rossanda di precisare senza nessuna emozione che «il movimento comunista non ha mai teorizzato l’omicidio della persona, né ha mai trasformato gli uomini in simboli da sopprimere». è vero: il comunismo non ha mai ucciso nessuno per fatto personale o per farne un’offerta sacrificale, ha ucciso 100 milioni di persone a motivo della loro appartenenza a classi sociali che ostacolavano l’avvento del comunismo; questo tranquillizza la Rossanda rispetto all’ipotesi di un’ascendenza comunista delle Br e le restituisce il buon umore. Come pure a Ingrao, che dà ai brigatisti degli analfabeti marxisti per non aver capito che la lotta armata per l’instaurazione del potere che edificherà la nuova società socialista si può fare solo come “azione collettiva” contro il “potere costituito”, non certo come somma di omicidi di singoli avversari.

Terrorismo, anticipazione del terrore totalitario
E tuttavia i padri e le madri nobili sbagliano. I brigatisti sono nemici politici del Movimento, come dicono Casarini e Bernocchi. Sin dal tempo di Lenin l’estremismo è stato combattuto come una malattia infantile del comunismo: anche questo è vero. Eppure è altrettanto vero che finché il comunismo sarà onorato esisteranno terroristi “rossi”: il terrorismo è consustanziale all’utopia comunista, per la fondamentale ragione che il terrore è consustanziale al socialismo reale. Non c’è socialismo reale senza terrore, come dimostra la storia dell’Unione Sovietica, della Cina popolare, della Corea del Nord, ecc., perché non c’è totalitarismo senza terrore, come ha spiegato Hannah Arendt nel suo Le radici del totalitarismo, e i regimi comunisti sono regimi totalitari. I totalitarismi hanno bisogno del terrore per realizzare la loro idea di legge: «Nell’interpretazione del totalitarismo, tutte le leggi sono diventate leggi di movimento. La natura e la storia non sono più fonti stabilizzatrici di autorità per le azioni dei mortali, ma esse stesse dei movimenti, dei processi… Nel regime totalitario il posto del diritto positivo viene preso dal terrore totale, inteso a tradurre in realtà la legge di movimento della storia (comunismo - ndr) o della natura (nazismo - ndr)». Il problema che il terrore è chiamato a risolvere è quello dell’“attrito” che gli esseri umani in quanto tali, cioè in quanto ontologicamente portatori di libertà, oppongono all’evoluzione della storia, che invece avviene secondo necessità. «Il terrore totale… viene considerato uno strumento incomparabile per accelerare il movimento delle forze della natura o della storia. Tale movimento, che procede secondo la propria legge, non può alla lunga essere impedito... Ma può essere rallentato, e lo è quasi inevitabilmente, dalla libertà umana, che neppure i governanti totalitari sono in grado di negare, perché questa libertà… si identifica con la nascita degli uomini, col fatto che ciascuno di essi è un nuovo inizio, comincia, in un certo senso, il mondo da capo… Quindi il terrore, in quanto servo fedele del movimento naturale o storico, deve eliminare dal processo non soltanto la libertà in senso specifico, ma la sua stessa fonte, che è data con la nascita dell’uomo e risiede nella sua capacità di compiere un nuovo inizio. Nel ferreo vincolo del terrore, che distrugge la pluralità umana fondendola nel tutto unico che agisce infallibilmente come se fosse parte del corso della storia o della natura, è stato trovato uno strumento capace non solo di liberare le forze storiche e naturali, ma di accelerarle fino a una velocità che non avrebbero mai raggiunto se lasciate a se stesse».

Il terrorismo brigatista, allora, non è un metodo di lotta per l’avvento del comunismo (rigettato dagli stessi comunisti per ragioni politiche e/o morali), ma tutt’un’altra cosa: è la prefigurazione, è l’anticipazione di ciò che il comunismo farà una volta divenuto regime: provvedere all’eliminazione delle persone in senso ontologico, cosa che comporta un certo grado di eliminazioni fisiche. Gli uomini intesi come pluralità di io irriducibili, che rifiutano di essere spersonalizzati dentro alle leggi dell’evoluzione storica, sono il nemico giurato di ogni totalitarismo. Quando esso è regime li cancella come individui per mezzo del terrore, quando esso è ancora lotta rivoluzionaria li affligge attraverso il terrorismo, riflesso incontrollato del regime che verrà. Per questo, finché esisterà l’utopia comunista, i terroristi li avremo sempre con noi.
 
 

Terrorismo: «Alle radici del terrorismo», di Casadei Rodolfo, Tempi, Numero: 46 - 13 Novembre 2003

 

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