|
È
stato forse il libro più regalato in questo Natale da poco
trascorso: 700.000 copie vendute in due settimane.
La rabbia e l’orgoglio
nasce come articolo di giornale che interrompe il silenzio
di anni della scrittrice. Sono gli appunti di Oriana
Fallaci, scritti di getto dopo quel drammatico 11 settembre.
Pensieri, reazioni, associazioni di idee, o come lo
definisce lei stessa, «a sermon, una predica agli
italiani», per scrollarli e per risvegliarli da un torpore
di decenni. Ciò che ha occupato ben quattro paginoni del Corriere
della Sera del 29 settembre, è una versione ridotta.
Quelle parti tagliate per motivi redazionali, Oriana le ha
conservate: il libro è quindi la versione originale della
sua invettiva, introdotta da una lunga prefazione, dove
parla di sé, del suo «auto-esilio» a New York, del libro
e di come è nato.
Proponiamo tre opinioni, tre punti di vista differenti:
quello di un’insegnante, di uno scrittore, e di una
studentessa universitaria, tutti noti ai lettori di Tracce
in quanto collaboratori della rivista.
«Vi
sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e
parlare diventa un obbligo».
Si può apprezzare, si può dissentire completamente da
quanto ha scritto Oriana Fallaci. È certo, però, che
leggendo le sue parole è dura rimanere indifferenti.
Quel
suo Bel Paese
di
LAURA CIONI
Ho
letto l’articolo della Fallaci, e, a dispetto della sua
lunghezza e del linguaggio da caserma abbondantemente
profuso, l’ho apprezzato molto, tanto da consigliarne la
lettura ai miei studenti. Mi è parsa sincera
l’indignazione, intelligente l’analisi, l’emozione
giustamente calibrata da una forma espressiva potente e
nello stesso tempo comprensibile a chiunque, la polemica nei
confronti delle “cicale” così lucida da strappare quasi
il consenso, la visione del cristianesimo, laica, a metà
tra Croce e la nostalgia dell’infanzia. Il libro amplifica
la prima stesura in una più meditata razionalità: una
predica, lo definisce la Fallaci, scritta con rigore, per
provocare, per costringere a pensare non solo al pericolo
islamico, ma anche al nostro mondo occidentale, così
minacciato dalla sua stessa fragilità. Un atto di accusa,
un grido contro tutti di una donna libera e intelligente,
che paga con la solitudine le sue scelte e le sue indubbie
doti di scrittrice. Verrebbe voglia di poter discutere con
lei, di dirle: «Ha ragione». Eppure il libro lascia in
fondo un’amarezza che il suo intento non merita e che pure
mi sembra il prezzo di una posizione arroccata solo sulla
lucidità del proprio pensiero. La
figura di Giovanni Paolo II non ha certo bisogno di essere
difesa dal dissenso della Fallaci: eppure mi sono chiesta,
leggendo, perché mai una giornalista che in più occasioni
ha mostrato di conoscere gli uomini, non capisca che
l’origine delle richieste di perdono di cui il Papa si è
fatto promotore non è il bisogno di scusarsi di colpe
storiche di fronte agli uomini, ma il suo stare in ginocchio
davanti a Dio, tanto nella penitenza che ha inaugurato il
Giubileo, quanto nell’implorazione immediatamente dopo i
drammatici fatti di New York.
E così condivido la certezza che l’Italia che la Fallaci
sogna c’è. C’è perché la vedo nella gente che al
mattino riprende la giornata, e lavora per campare, ma anche
spera che i suoi figli siano migliori; la vedo
nell’impegno di tanti miei colleghi insegnanti, e nei miei
allievi, là dove è quasi solo una promessa e non vorrei
che sfiorisse prima che siano diventati adulti, e questo in
fondo giustifica il mio lavoro. E mi accorgo che quel
cristianesimo che la Fallaci ricorda come un dato importante
della sua vita sembra sbiadire come un’immagine di cui si
perdono i contorni precisi o le nozioni basilari. E allora
scopro quanto sia importante per me, come per tanti altri,
spendere le energie e il tempo perché quell’Italia in cui
la Fallaci spera, con una forza di accento che mi ha
ricordato la chiusa del Principe, sia reale e, tra le
sue qualità civili, abbia anche quella d’essere veramente
cattolica.
Fidarsi
di lei?
Di
LUCA DONINELLI
Ho letto con grande partecipazione il lungo articolo di
Oriana Fallaci trasformato poi in libro. Mi hanno colpito
l’urgenza delle sue parole, la veemenza della sua presa di
posizione, la sua giusta presa di distanza dai troppi
distinguo che hanno paralizzato parte della cultura europea
e italiana dopo l’11 settembre. Sono d’accordo anche
sull’osservazione che la società aperta è più
vulnerabile di quella chiusa. Aggiungerei che l’esistenza
della società aperta ha la sua origine nella presenza della
Chiesa assai più che nella Rivoluzione Francese. Per altri
aspetti, invece, il libro non mi è piaciuto. Mi sembra un
libro isterico, nel quale si confonde lo sfogo con la
sincerità. Non trovo tutta questa sincerità né qui né in
altri libri della Fallaci. La necessità di aumentare il
numero delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, ad
esempio, fa parte di un atteggiamento giornalistico che
conosco bene e che, semplicemente, non mi interessa. Molte
delle cose che la Fallaci ci racconta nel suo scritto
richiedono, da parte del lettore, un’adesione
incondizionata alle tesi della scrittrice. Bisogna fidarsi
di lei. E a me non viene da fidarmi. La lascio dunque
volentieri alle sue sigarette, ai suoi posacenere, alla sua
macchina da scrivere e a tutti i feticci che s’indovinano
leggendola.
Le
cinque “W”
DI
CATERINA GIOJELLI
La rabbia e l’orgoglio. Allacciate le cinture di sicurezza
perché la “sora” Fallaci ci porta a un safari. Badate
bene, perché l’antica signora non obbliga nessuno a
parteciparvi (zotici-ignoranti-privi di
attributi-immeritevoli di tal privilegio!), ma dal momento
in cui prenderete parte a tal spedizione (noi privi di
attributi?!) sappiate che chi comanda è lei, lei deciderà
COSA far vedere, DOVE condurre, QUANDO condurre, PERCHÉ
condurre e, soprattutto, CHI condurre fino alla fine (le
cinque “W” giornalistiche…). Poche e semplici regole:
vietato parlare al conducente, altrimenti lo spirito
sportivo dell’Oriana emergerà con prepotenza, iniziandola
al calcio dei palloni. Inutile ricordarvi che lei deciderà
quali. Fiera della patente conseguita alla scuola
“Giustizia e Libertà”, la Fallaci guida da più tempo
di chiunque, ovunque e comunque. Unica costante
spaziotemporale è la cara, vecchia e sicura Balilla di papà
Fallaci, amorevolmente pennellata dagli immensi luminari
dell’Occidente antifascista. Destinazione: la terra dei
figli di Allah. Guidando all’impazzata, l’illustre donna
da New York farà una capatina in tutto il mondo, investendo
“ortiche e ravanelli”, principi e capi di Stato,
ambulanti e santoni tibetani, terroristi e terrorizzati,
preti, militari, politici, editori, UNIVERSITARI… Al
vostro umano disappunto l’austera repubblicana ruggirà la
ragion d’essere d’ogni ecatombe, e vi sorprenderete nel
darle ragione. L’essenza del libro? Dunque… ti dà
fastidio il fumo? Scendi babbeo! Le curve a gomito ti fan
salire il vomito? Crepa bastardo! Tra un campanile e un
minareto la Fallaci avrà fretta di PARLARE del suo orgoglio
(di che, “sora”? è passato, è un ricordo) e SFOGGIARE
la sua rabbia (oh, questa sì che è presente e dotata di
vita propria).
|