Terrorismo

Leggendo Oriana
Tre reazioni all’ultimo libro della Fallaci:
  La rabbia e l’orgoglio

Tre reazioni all’ultimo libro della Fallaci, nato come lungo articolo dopo i tragici fatti di New York. La sua Italia, la sua sincerità e un giro in Balilla

È stato forse il libro più regalato in questo Natale da poco trascorso: 700.000 copie vendute in due settimane. La rabbia e l’orgoglio nasce come articolo di giornale che interrompe il silenzio di anni della scrittrice. Sono gli appunti di Oriana Fallaci, scritti di getto dopo quel drammatico 11 settembre. Pensieri, reazioni, associazioni di idee, o come lo definisce lei stessa, «a sermon, una predica agli italiani», per scrollarli e per risvegliarli da un torpore di decenni. Ciò che ha occupato ben quattro paginoni del Corriere della Sera del 29 settembre, è una versione ridotta. Quelle parti tagliate per motivi redazionali, Oriana le ha conservate: il libro è quindi la versione originale della sua invettiva, introdotta da una lunga prefazione, dove parla di sé, del suo «auto-esilio» a New York, del libro e di come è nato.


Proponiamo tre opinioni, tre punti di vista differenti: quello di un’insegnante,  di uno scrittore, e di una studentessa universitaria, tutti noti ai lettori di Tracce in quanto collaboratori della rivista.


«Vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo».


Si può apprezzare, si può dissentire completamente da quanto ha scritto Oriana Fallaci. È certo, però, che leggendo le sue parole è dura rimanere indifferenti.



Quel suo Bel Paese
di LAURA CIONI
Ho letto l’articolo della Fallaci, e, a dispetto della sua lunghezza e del linguaggio da caserma abbondantemente profuso, l’ho apprezzato molto, tanto da consigliarne la lettura ai miei studenti. Mi è parsa sincera l’indignazione, intelligente l’analisi, l’emozione giustamente calibrata da una forma espressiva potente e nello stesso tempo comprensibile a chiunque, la polemica nei confronti delle “cicale” così lucida da strappare quasi il consenso, la visione del cristianesimo, laica, a metà tra Croce e la nostalgia dell’infanzia. Il libro amplifica la prima stesura in una più meditata razionalità: una predica, lo definisce la Fallaci, scritta con rigore, per provocare, per costringere a pensare non solo al pericolo islamico, ma anche al nostro mondo occidentale, così minacciato dalla sua stessa fragilità. Un atto di accusa, un grido contro tutti di una donna libera e intelligente, che paga con la solitudine le sue scelte e le sue indubbie doti di scrittrice. Verrebbe voglia di poter discutere con lei, di dirle: «Ha ragione». Eppure il libro lascia in fondo un’amarezza che il suo intento non merita e che pure mi sembra il prezzo di una posizione arroccata solo sulla lucidità del proprio pensiero. La figura di Giovanni Paolo II non ha certo bisogno di essere difesa dal dissenso della Fallaci: eppure mi sono chiesta, leggendo, perché mai una giornalista che in più occasioni ha mostrato di conoscere gli uomini, non capisca che l’origine delle richieste di perdono di cui il Papa si è fatto promotore non è il bisogno di scusarsi di colpe storiche di fronte agli uomini, ma il suo stare in ginocchio davanti a Dio, tanto nella penitenza che ha inaugurato il Giubileo, quanto nell’implorazione immediatamente dopo i drammatici fatti di New York. E così condivido la certezza che l’Italia che la Fallaci sogna c’è. C’è perché la vedo nella gente che al mattino riprende la giornata, e lavora per campare, ma anche spera che i suoi figli siano migliori; la vedo nell’impegno di tanti miei colleghi insegnanti, e nei miei allievi, là dove è quasi solo una promessa e non vorrei che sfiorisse prima che siano diventati adulti, e questo in fondo giustifica il mio lavoro. E mi accorgo che quel cristianesimo che la Fallaci ricorda come un dato importante della sua vita sembra sbiadire come un’immagine di cui si perdono i contorni precisi o le nozioni basilari. E allora scopro quanto sia importante per me, come per tanti altri, spendere le energie e il tempo perché quell’Italia in cui la Fallaci spera, con una forza di accento che mi ha ricordato la chiusa del Principe, sia reale e, tra le sue qualità civili, abbia anche quella d’essere veramente cattolica.



Fidarsi di lei?
Di LUCA DONINELLI
Ho letto con grande partecipazione il lungo articolo di Oriana Fallaci trasformato poi in libro. Mi hanno colpito l’urgenza delle sue parole, la veemenza della sua presa di posizione, la sua giusta presa di distanza dai troppi distinguo che hanno paralizzato parte della cultura europea e italiana dopo l’11 settembre. Sono d’accordo anche sull’osservazione che la società aperta è più vulnerabile di quella chiusa. Aggiungerei che l’esistenza della società aperta ha la sua origine nella presenza della Chiesa assai più che nella Rivoluzione Francese. Per altri aspetti, invece, il libro non mi è piaciuto. Mi sembra un libro isterico, nel quale si confonde lo sfogo con la sincerità. Non trovo tutta questa sincerità né qui né in altri libri della Fallaci. La necessità di aumentare il numero delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, ad esempio, fa parte di un atteggiamento giornalistico che conosco bene e che, semplicemente, non mi interessa. Molte delle cose che la Fallaci ci racconta nel suo scritto richiedono, da parte del lettore, un’adesione incondizionata alle tesi della scrittrice. Bisogna fidarsi di lei. E a me non viene da fidarmi. La lascio dunque volentieri alle sue sigarette, ai suoi posacenere, alla sua macchina da scrivere e a tutti i feticci che s’indovinano leggendola.



Le cinque “W”
DI CATERINA GIOJELLI
La rabbia e l’orgoglio. Allacciate le cinture di sicurezza perché la “sora” Fallaci ci porta a un safari. Badate bene, perché l’antica signora non obbliga nessuno a parteciparvi (zotici-ignoranti-privi di attributi-immeritevoli di tal privilegio!), ma dal momento in cui prenderete parte a tal spedizione (noi privi di attributi?!) sappiate che chi comanda è lei, lei deciderà COSA far vedere, DOVE condurre, QUANDO condurre, PERCHÉ condurre e, soprattutto, CHI condurre fino alla fine (le cinque “W” giornalistiche…). Poche e semplici regole: vietato parlare al conducente, altrimenti lo spirito sportivo dell’Oriana emergerà con prepotenza, iniziandola al calcio dei palloni. Inutile ricordarvi che lei deciderà quali. Fiera della patente conseguita alla scuola “Giustizia e Libertà”, la Fallaci guida da più tempo di chiunque, ovunque e comunque. Unica costante spaziotemporale è la cara, vecchia e sicura Balilla di papà Fallaci, amorevolmente pennellata dagli immensi luminari dell’Occidente antifascista. Destinazione: la terra dei figli di Allah. Guidando all’impazzata, l’illustre donna da New York farà una capatina in tutto il mondo, investendo “ortiche e ravanelli”, principi e capi di Stato, ambulanti e santoni tibetani, terroristi e terrorizzati, preti, militari, politici, editori, UNIVERSITARI… Al vostro umano disappunto l’austera repubblicana ruggirà la ragion d’essere d’ogni ecatombe, e vi sorprenderete nel darle ragione. L’essenza del libro? Dunque… ti dà fastidio il fumo? Scendi babbeo! Le curve a gomito ti fan salire il vomito? Crepa bastardo! Tra un campanile e un minareto la Fallaci avrà fretta di PARLARE del suo orgoglio (di che, “sora”? è passato, è un ricordo) e SFOGGIARE la sua rabbia (oh, questa sì che è presente e dotata di vita propria).

Tracce, Febbraio 2002

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