T
E
R
R
O
R
I
S
M
O


Si può guardare da un'altra parte?


di Mina

In margine all’attentato terroristico portato agli Stati Uniti 11 Settembre 2001.


Può passare un mese, può passare anche tutta la vita. Posso passare anche tutta l’eternità a cercare di capire perché. Paradossalmente se anche solo provassi ad applicare la ragione nel comprendere, sarebbe un po’ come farlo mio. Addirittura, mi parrebbe di partecipare in qualche modo alla logica demoniaca e distruttrice, mi sentirei sul carro vincente dell’orrore. E invece lo voglio tenere lontano.

Sarà forse per questo che non sono assalita dal senso di colpa, se la routine scorre ancora, nella pesante tranquillità dei gesti di sempre. Non mi viene neppure voglia di provare un senso di colpa. Perché non mi appartiene l’odio, non mi appartiene il vuoto che sento sempre più crescere intorno a me. E gli uomini abbattuti come birilli in uno schifoso war-game li guardo con tutta la partecipazione che si deve concedere alla sofferenza delle vittime innocenti, ma nella distanza più assoluta dalle assurde ragioni che distruggono la vita.

Non è un brutto sogno, quello che mi porto dentro e che scompiglia i pensieri. Si è spalancata una abissale finestra che è difficile richiudere. Ma il pugno allo stomaco costringe a reclamare una semplice e grandiosa essenzialità della vita, che trova già la sua stanza nelle pieghe di una normalità di piccole certezze. E la domanda, che parte da quanto è successo e continua ad accadere, non può essere risolta o arginata. La consapevolezza tragica del non-essere, la pensosità di fronte a questo colossale nulla, così tanto ripudiata da un mondo occidentale che vive spesso di sfarfallii e di paillettes, sono rimbalzate su di me, trasformandosi in una nuova riconsiderazione delle cose. L’orrore mi ha raggiunto, ma l’effetto di questo attacco è la possibilità di attuare un’aggiustatura, un ricentratura sull’essenziale.

Perché non siamo capaci di trasformare quella molla naturale di amore che riversiamo nel piccolo cerchio del nostro ambito familiare, in qualcosa che sia fondamento e condizione di vita a livello generale, direi quasi planetario? Lo sguardo che penetra le immagini di morte e lo sconforto su quanto potrà accadere non possono diventare il freno che inibisce la vita, nella sua dimensione di bellezza e nell’essenzialità delle poche cose che contano. E se in definitiva mi sento più dentro la verità delle cose e delle persone che amo, non mi sento in colpa. Rivolgo gli occhi da un’altra parte. Non per fuggire, ma per stare dentro l’unica realtà che posso controllare, me stessa. E quand’anche avessi capito tutto e la dinamica dei fatti fosse analizzata e sezionata con la lama della ragione? Che cosa cambierebbe?

 

Mina
La Stampa, 13.10.01