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di
Giorgio Paolucci
Di fronte alla vertenza sul trasporto pubblico, formalmente conclusa ma che
sta lasciando strascichi in alcune città per le proteste degli
«irriducibili», si corre il rischio di fare un bagno di retorica scomodando
una parola tanto evocata quanto tradita: responsabilità. A furia di
ripeterla se ne è smarrito il significato, la si è banalizzata al punto che
- come sta accadendo in questi giorni - ognuno la usa brandendola come
un'arma da indirizzare verso l'avversario accusandolo, per l'appunto, di
essere un «irresponsabile».
Nella moltiplicazione delle accuse incrociate che vengono lanciate da
lavoratori, sindacati, imprenditori e governo, il Paese ha infilato una
china che rischia di portare all'assolutizzazione degli interessi
corporativi e alla contemporanea dissoluzione di quelli comuni. Così
«l'Italia delle categorie» prende lentamente il posto di un Paese in cui
tutti si sentano partecipi di un'impresa comune, di impegni e responsabilità
che sono al tempo personali e collettive.
Ieri è stata una giornata a suo modo esemplare. Nonostante la firma
dell'accordo a livello nazionale, e in barba alla precettazione da parte dei
prefetti, i trasporti pubblici sono risultati bloccati a Genova, Venezia e
Modena; i Cobas del latte hanno immobilizzato la tangenziale di Milano,
minacciando di estendere la protesta all'aeroporto di Linate; mentre tamburi
di guerra arrivano dal fronte del trasporto aereo dove i sindacati hanno
convocato l'assemblea generale dei lavoratori Alitalia dopo avere valutato
negativamente le proposte del governo per avviare a soluzione un'altra
vertenza calda. Dulcis in fundo, arriva l'ipotesi di uno «sciopero del
biglietto» come forma di protesta dei consumatori: i passeggeri potrebbero
viaggiare sui mezzi pubblici muniti di biglietto ma senza convalidarlo e, in
caso di contestazione da parte dei controllori, dovrebbero far mettere a
verbale che la mancata obliterazione è dovuta all'adesione alle
rivendicazioni dei lavoratori. Poco importa se a rimetterci sono le stesse
casse dalle quali si attingono gli stipendi. Viaggiamo gratis, tanto paga
Pantalone, la maschera dietro la quale, al fondo, si trovano le facce di
quegli stessi cittadini che vengono invitati a scioperare.
Ebbene, in una tale selva di proteste quella degli autoferrotranvieri rimane
la vicenda più eloquente: nessuno ovviamente sottovaluta quanto i ritardi
nell'affrontare i nodi del settore abbiano alimentato la rabbia di quei
lavoratori, eppure resta la sensazione che le modalità opzionate stiano
superando il grado di tollerabilità «democratica», nel senso meno ideologico
e più proprio del termine.
Qui non c'entra, si badi bene, il diritto di sciopero: il problema è che
ottomila tranvieri possono tenere in scacco due milioni di persone,
impedendogli di fatto di andare al lavoro, a scuola, a curarsi all'ospedale
e quant'altro. Insomma, fermando per un giorno la vita della collettività di
cui anche loro fanno parte. Ci sono esigue minoranze che pesano enormemente
più della maggioranza perché operano in snodi nevralgici per la
collettività, ma c'è
un bene comune che dovrebbe stare in cima alle preoccupazioni di chiunque
voglia far sentire le ragioni della sua protesta.
Dovrebbe. Il problema che sta emergendo con sempre maggiore evidenza è che
forse a questa Italia manca il collante capace di tenere insieme diritti e
doveri, un punto di riferimento davanti al quale confrontare - e se
necessario sacrificare - anche i propri legittimi interessi. E invece troppi
continuano a ballare sul Titanic, nell'illusione che quando la nave
affonderà si troverà comunque una scialuppa su cui salire per salvarsi.
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