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di
Gianluigi Da Rold
Marco Biagi non era stato ancora ucciso dalle Brigate Rosse
e quindi l’intervista al dottor Giuseppe Gennaro manca del
commento su un episodio drammatico della scontro sociale in
atto nel Paese. Ma ugualmente, l’intervista al dottor
Gennaro tiene conto di una situazione conflittuale che
richiede un ripensamento generale da parte dei protagonisti
di questa stagione politica.
Dottor
Gennaro, al di là della polemica sul ruolo della
magistratura, non le sembra che la radicalizzazione politica
sia diventata insopportabile in questo Paese?
La polemica sul ruolo della magistratura è essa stessa
espressione della radicalizzazione della lotta politica. Più
in generale la giustizia continua a essere, nel nostro
Paese, terreno di scontro politico e ciò finisce per
coinvolgere inevitabilmente i magistrati, sui quali grava già
il peso della conclamata inefficienza del sistema
giudiziario. E come se ciò non bastasse anche l’accusa di
essere in qualche modo politicizzata. Il rischio è quello
di una progressiva e definitiva perdita di fiducia dei
cittadini nell’operato della magistratura. E senza fiducia
nella magistratura, non c’è riforma che possa far
funzionare la macchina della giustizia.
A
pensarci bene, ora che i “buoi sono usciti dalla
stalla”, forse si è persa un’occasione con il
fallimento della Bicamerale. Non le pare arrivato il momento
che la maggioranza ragionevole di questo Paese, senza
steccati politici, debba mettersi a un tavolo per ripensare
a regole comuni, per stabilire le “regole del gioco”?
Per rispondere a questa domanda devo necessariamente uscire
dai confini. I magistrati sono chiamati ad applicare le
leggi, non a farle. Qualcuno recentemente ha contestato
addirittura la possibilità che i magistrati possano
interpretare le leggi che sono chiamati ad applicare. Si è
trattato di una stoltezza passeggera, dal momento che tutti
sanno che l’applicazione della legge non è mai
un’attività meccanica. Forse si voleva dire che il
giudice deve applicare la legge in conformità alla volontà
di chi comanda. E non è questione che ho richiamato per
puro caso. Condivido la necessità che sia al più presto
riscritta una parte delle “regole del gioco” e che, a
mio avviso, questo compito spetti non soltanto alla
“maggioranza ragionevole”, ma all’intero arco delle
forze presenti in Parlamento, per l’ovvia considerazione
che si tratta di riscrivere regole che hanno da valere per
tutti. A ogni regola è sotteso un valore e allora il
problema diventa quello di individuare una nuova tavola di
valori e di verificare quale sia il grado di condivisione.
Più ampia è la condivisione, più fecondi saranno i
risultati.
Si
discute tanto di “conflitto di interessi”. E forse è più
che lecito porsi la questione. Ma a lei non sembra, dottor
Gennaro, che in questo Paese ci sia un’anomalia diffusa
costituita da tanti “conflitti d’interesse” diversi?
Concordo sul fatto che esistano oggi tanti conflitti
d’interesse di natura diversa. Alcuni più “pesanti”,
altri meno. Si tratta a mio avviso di situazioni da tempo
note che avrebbero dovuto essere tempestivamente
disciplinate. Oggi qualunque soluzione rischia di creare
nuovi problemi da una parte o dall’altra. Davvero
difficile venirne a capo. Fortunatamente non è questione
che spetta ai magistrati risolvere.
L’Italia
è ricca di anomalie rispetto alle altre grandi democrazie
occidentali, ma è anche un grande Paese, di grandi
tradizioni, di grande civiltà. La società civile di questo
Paese, nell’ultimo dopoguerra, si è riscattata, con
impegno, lavoro e passione, da un secolare ritardo. Non è
questo il momento per un nuovo slancio verso nuovi
traguardi, liberando la società civile da un’impalcatura
statale e politica asfissiante?
Non ho chiaro in quale misura sia ancora oggi presente,
nella società civile, quella che lei definisce
“impalcatura statale e politica asfissiante”. Se
quell’impalcatura è sinonimo di inefficienza e
burocrazia, è giusto che sia smontata ed eliminata. Credo
però che ci si debba chiedere se - ed eventualmente in
quali settori - sia opportuno conservare e caso mai
migliorare la presenza dello Stato. Per esempio, si può
privatizzare anche la giustizia, ma non credo che sia un
obiettivo fortemente auspicato dai cittadini. Intendo dire
che ciò che conta è sapere verso quale forma di
organizzazione sociale vogliamo tendere, come intendiamo
dare sostanza ai principi di libertà, solidarietà,
uguaglianza.
Veniamo
al nodo su cui si discute da un decennio. I magistrati hanno
avuto delle colpe?
I magistrati, come tutti gli uomini, commettono errori. Il
sistema giudiziario è organizzato in modo tale da
consentire l’eliminazione dell’errore o comunque da
ridurre il più possibile il rischio che esso possa
verificarsi. L’amministrazione della giustizia è fatta di
organizzazioni e di risorse umane. Quanto più alti sono i
livelli dell’organizzazione, tanto più efficiente è la
risposta giudiziaria. Più alta è la professionalità del
magistrato, più tempestiva e corretta è la decisione sul
caso concreto. Non credo a una giustizia valutabile secondo
il colore delle toghe. Credo al diritto di critica (e dunque
al diritto di criticare una sentenza), non credo invece al
diritto di critica che sconfina nell’ingiuria, nella
denigrazione e nella delegittimazione della funzione
giurisdizionale.
Si
parla a volte della politicizzazione della magistratura,
delle “toghe rosse e nere”, della loro invadenza. Che
cosa pensa della riforma del Consiglio superiore della
magistratura e del suo ruolo?
La riforma del Consiglio superiore della magistratura è in
realtà mirata contro le formazioni culturali e il
pluralismo ideale presente all’interno della magistratura.
Noi magistrati non siamo organizzati in “partitini”,
ideologicamente caratterizzati e specularmente vicini a
questo o a quel partito politico. Ci siamo sempre divisi o
uniti attorno a problemi, quali il ruolo
dell’interpretazione, il rapporto tra norma di legge e
principi fondamentali della Carta costituzionale, la
deontologia del giudice nel quotidiano, il rapporto con i
mezzi d’informazione e così via. Inoltre la riduzione del
numero dei componenti da 30 a 21 è, a nostro avviso, un
errore grave, perché determinerà un deficit di funzionalità
dell’organo di autogoverno, e non un aumento della sua
capacità produttiva, come si è invece affermato. Infine si
tratta di una riforma che non ridurrà, neppure di un
minuto, i tempi lunghissimi della giustizia italiana.
Qualsiasi
ordinamento giuridico democratico prevede una diversità di
ruoli e funzioni tra accusa e difesa. Perché i magistrati
italiani si oppongono tanto alla separazione delle carriere
o a una più netta distinzione delle funzioni? Non le pare
anche che la caratteristica di un ordinamento giuridico, in
una democrazia, sia soprattutto l’indipendenza del
giudice, non quella della pubblica accusa?
Occorre tenere nettamente distinte tra loro le due diverse
opzioni. La separazione delle carriere significa che il
giudice e il pubblico ministero vengono reclutati con
concorsi diversi, hanno carriere separate e non
“comunicanti” e hanno garanzie di autonomia e
indipendenza solitamente diverse. La distinzione delle
funzioni oggi esiste già: il giudice svolge funzioni di
giudice, il pm funzioni di pubblico ministero. Occorre
certamente disciplinare meglio il passaggio da una funzione
all’altra, prevedendo l’incompatibilità a esercitare,
per esempio, la funzione di giudice nel medesimo circondario
in cui, sino al giorno prima, il magistrato aveva svolto
funzioni di pubblico ministero. E occorre valutare in modo
più netto il possesso dei requisiti di professionalità,
allorché si richiede il passaggio da una funzione
all’altra. Ma questo, all’interno di una carriera unica,
con concorso unico e con possibilità di passaggio da una
funzione all’altra. Del resto, quando si guarda agli altri
modelli giuridici occorre aggiungere che il giudice è
sempre indipendente, mentre il pubblico ministero dipende
dall’esecutivo, ossia dal ministro della Giustizia. Quando
si guarda agli altri modelli, occorre aggiungere che anche
nei Paesi nei quali il pm dipende formalmente
dall’esecutivo, di fatto il ministro da anni non
interviene a fermare un’indagine scomoda di un pubblico
ministero, a motivo del controllo che la stampa e
l’opinione pubblica esercitano sull’operato del
ministro. Quando si guarda ad altri modelli, occorre
aggiungere che in molti Paesi è previsto che un avvocato di
chiara fama diventi rappresentante della pubblica accusa e
financo giudice della Corte federale e successivamente torni
a fare l’avvocato! Esistono, cioè, figure che assommano
nella stessa persona le esperienze professionali
dell’avvocato, del pubblico ministero e del giudice. Altro
che separazione delle carriere! Dimenticavo: i magistrati
non si oppongono a una più netta distinzione delle
funzioni, bensì e soltanto alla separazione delle carriere.
Può
fare un quadro sintetico della situazione della giustizia
italiana? Tanti anni fa un avvocato, un grande giurista,
Carnelutti, diceva paradossalmente: «Se un giorno vi
accusano di avere rubato il Duomo di Milano, andate a vedere
se c’è ancora il Duomo… e poi scappate in Svizzera».
È ancora in questi termini la situazione della giustizia
italiana?
Oggi, se qualcuno viene accusato di avere rubato il Duomo di
Milano, non ha bisogno di scappare in Svizzera. Può
tranquillamente attendere che arrivi la prescrizione oppure
che il processo incontri uno dei tanti inciampi disseminati
nel suo percorso e, come accade nel “gioco dell’oca”,
torni alla casella di partenza, per ricominciare da capo.
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