Società

Giustizia, per chi per che cosa

La giustizia come terreno di scontro politico. La perdita di fiducia dei cittadini nell’operato della magistratura. La polemica sempre viva sulle toghe rosse. La riforma e il ruolo del Consiglio superiore della magistratura. L’ultima intervista al Presidente dell’Associazione nazionale magistrati prima di essere sostituito da Antonio Patrono

di Gianluigi Da Rold



Marco Biagi non era stato ancora ucciso dalle Brigate Rosse e quindi l’intervista al dottor Giuseppe Gennaro manca del commento su un episodio drammatico della scontro sociale in atto nel Paese. Ma ugualmente, l’intervista al dottor Gennaro tiene conto di una situazione conflittuale che richiede un ripensamento generale da parte dei protagonisti di questa stagione politica.

Dottor Gennaro, al di là della polemica sul ruolo della magistratura, non le sembra che la radicalizzazione politica sia diventata insopportabile in questo Paese?
La polemica sul ruolo della magistratura è essa stessa espressione della radicalizzazione della lotta politica. Più in generale la giustizia continua a essere, nel nostro Paese, terreno di scontro politico e ciò finisce per coinvolgere inevitabilmente i magistrati, sui quali grava già il peso della conclamata inefficienza del sistema giudiziario. E come se ciò non bastasse anche l’accusa di essere in qualche modo politicizzata. Il rischio è quello di una progressiva e definitiva perdita di fiducia dei cittadini nell’operato della magistratura. E senza fiducia nella magistratura, non c’è riforma che possa far funzionare la macchina della giustizia.

A pensarci bene, ora che i “buoi sono usciti dalla stalla”, forse si è persa un’occasione con il fallimento della Bicamerale. Non le pare arrivato il momento che la maggioranza ragionevole di questo Paese, senza steccati politici, debba mettersi a un tavolo per ripensare a regole comuni, per stabilire le “regole del gioco”?
Per rispondere a questa domanda devo necessariamente uscire dai confini. I magistrati sono chiamati ad applicare le leggi, non a farle. Qualcuno recentemente ha contestato addirittura la possibilità che i magistrati possano interpretare le leggi che sono chiamati ad applicare. Si è trattato di una stoltezza passeggera, dal momento che tutti sanno che l’applicazione della legge non è mai un’attività meccanica. Forse si voleva dire che il giudice deve applicare la legge in conformità alla volontà di chi comanda. E non è questione che ho richiamato per puro caso. Condivido la necessità che sia al più presto riscritta una parte delle “regole del gioco” e che, a mio avviso, questo compito spetti non soltanto alla “maggioranza ragionevole”, ma all’intero arco delle forze presenti in Parlamento, per l’ovvia considerazione che si tratta di riscrivere regole che hanno da valere per tutti. A ogni regola è sotteso un valore e allora il problema diventa quello di individuare una nuova tavola di valori e di verificare quale sia il grado di condivisione. Più ampia è la condivisione, più fecondi saranno i risultati.

Si discute tanto di “conflitto di interessi”. E forse è più che lecito porsi la questione. Ma a lei non sembra, dottor Gennaro, che in questo Paese ci sia un’anomalia diffusa costituita da tanti “conflitti d’interesse” diversi?
Concordo sul fatto che esistano oggi tanti conflitti d’interesse di natura diversa. Alcuni più “pesanti”, altri meno. Si tratta a mio avviso di situazioni da tempo note che avrebbero dovuto essere tempestivamente disciplinate. Oggi qualunque soluzione rischia di creare nuovi problemi da una parte o dall’altra. Davvero difficile venirne a capo. Fortunatamente non è questione che spetta ai magistrati risolvere.

L’Italia è ricca di anomalie rispetto alle altre grandi democrazie occidentali, ma è anche un grande Paese, di grandi tradizioni, di grande civiltà. La società civile di questo Paese, nell’ultimo dopoguerra, si è riscattata, con impegno, lavoro e passione, da un secolare ritardo. Non è questo il momento per un nuovo slancio verso nuovi traguardi, liberando la società civile da un’impalcatura statale e politica asfissiante?
Non ho chiaro in quale misura sia ancora oggi presente, nella società civile, quella che lei definisce “impalcatura statale e politica asfissiante”. Se quell’impalcatura è sinonimo di inefficienza e burocrazia, è giusto che sia smontata ed eliminata. Credo però che ci si debba chiedere se - ed eventualmente in quali settori - sia opportuno conservare e caso mai migliorare la presenza dello Stato. Per esempio, si può privatizzare anche la giustizia, ma non credo che sia un obiettivo fortemente auspicato dai cittadini. Intendo dire che ciò che conta è sapere verso quale forma di organizzazione sociale vogliamo tendere, come intendiamo dare sostanza ai principi di libertà, solidarietà, uguaglianza.

Veniamo al nodo su cui si discute da un decennio. I magistrati hanno avuto delle colpe?
I magistrati, come tutti gli uomini, commettono errori. Il sistema giudiziario è organizzato in modo tale da consentire l’eliminazione dell’errore o comunque da ridurre il più possibile il rischio che esso possa verificarsi. L’amministrazione della giustizia è fatta di organizzazioni e di risorse umane. Quanto più alti sono i livelli dell’organizzazione, tanto più efficiente è la risposta giudiziaria. Più alta è la professionalità del magistrato, più tempestiva e corretta è la decisione sul caso concreto. Non credo a una giustizia valutabile secondo il colore delle toghe. Credo al diritto di critica (e dunque al diritto di criticare una sentenza), non credo invece al diritto di critica che sconfina nell’ingiuria, nella denigrazione e nella delegittimazione della funzione giurisdizionale.

Si parla a volte della politicizzazione della magistratura, delle “toghe rosse e nere”, della loro invadenza. Che cosa pensa della riforma del Consiglio superiore della magistratura e del suo ruolo?
La riforma del Consiglio superiore della magistratura è in realtà mirata contro le formazioni culturali e il pluralismo ideale presente all’interno della magistratura. Noi magistrati non siamo organizzati in “partitini”, ideologicamente caratterizzati e specularmente vicini a questo o a quel partito politico. Ci siamo sempre divisi o uniti attorno a problemi, quali il ruolo dell’interpretazione, il rapporto tra norma di legge e principi fondamentali della Carta costituzionale, la deontologia del giudice nel quotidiano, il rapporto con i mezzi d’informazione e così via. Inoltre la riduzione del numero dei componenti da 30 a 21 è, a nostro avviso, un errore grave, perché determinerà un deficit di funzionalità dell’organo di autogoverno, e non un aumento della sua capacità produttiva, come si è invece affermato. Infine si tratta di una riforma che non ridurrà, neppure di un minuto, i tempi lunghissimi della giustizia italiana.

Qualsiasi ordinamento giuridico democratico prevede una diversità di ruoli e funzioni tra accusa e difesa. Perché i magistrati italiani si oppongono tanto alla separazione delle carriere o a una più netta distinzione delle funzioni? Non le pare anche che la caratteristica di un ordinamento giuridico, in una democrazia, sia soprattutto l’indipendenza del giudice, non quella della pubblica accusa?
Occorre tenere nettamente distinte tra loro le due diverse opzioni. La separazione delle carriere significa che il giudice e il pubblico ministero vengono reclutati con concorsi diversi, hanno carriere separate e non “comunicanti” e hanno garanzie di autonomia e indipendenza solitamente diverse. La distinzione delle funzioni oggi esiste già: il giudice svolge funzioni di giudice, il pm funzioni di pubblico ministero. Occorre certamente disciplinare meglio il passaggio da una funzione all’altra, prevedendo l’incompatibilità a esercitare, per esempio, la funzione di giudice nel medesimo circondario in cui, sino al giorno prima, il magistrato aveva svolto funzioni di pubblico ministero. E occorre valutare in modo più netto il possesso dei requisiti di professionalità, allorché si richiede il passaggio da una funzione all’altra. Ma questo, all’interno di una carriera unica, con concorso unico e con possibilità di passaggio da una funzione all’altra. Del resto, quando si guarda agli altri modelli giuridici occorre aggiungere che il giudice è sempre indipendente, mentre il pubblico ministero dipende dall’esecutivo, ossia dal ministro della Giustizia. Quando si guarda agli altri modelli, occorre aggiungere che anche nei Paesi nei quali il pm dipende formalmente dall’esecutivo, di fatto il ministro da anni non interviene a fermare un’indagine scomoda di un pubblico ministero, a motivo del controllo che la stampa e l’opinione pubblica esercitano sull’operato del ministro. Quando si guarda ad altri modelli, occorre aggiungere che in molti Paesi è previsto che un avvocato di chiara fama diventi rappresentante della pubblica accusa e financo giudice della Corte federale e successivamente torni a fare l’avvocato! Esistono, cioè, figure che assommano nella stessa persona le esperienze professionali dell’avvocato, del pubblico ministero e del giudice. Altro che separazione delle carriere! Dimenticavo: i magistrati non si oppongono a una più netta distinzione delle funzioni, bensì e soltanto alla separazione delle carriere.

Può fare un quadro sintetico della situazione della giustizia italiana? Tanti anni fa un avvocato, un grande giurista, Carnelutti, diceva paradossalmente: «Se un giorno vi accusano di avere rubato il Duomo di Milano, andate a vedere se c’è ancora il Duomo… e poi scappate in Svizzera». È ancora in questi termini la situazione della giustizia italiana?
Oggi, se qualcuno viene accusato di avere rubato il Duomo di Milano, non ha bisogno di scappare in Svizzera. Può tranquillamente attendere che arrivi la prescrizione oppure che il processo incontri uno dei tanti inciampi disseminati nel suo percorso e, come accade nel “gioco dell’oca”, torni alla casella di partenza, per ricominciare da capo.

Gianluigi Da Rold,
Tracce, Aprile 2002

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