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L’uomo d’oggi, la violenza, il bisogno di eternità |
«Signore, noi non ci muoveremo di qui se tu non camminerai con noi». Queste parole di Mosè nel sublime dialogo con Dio mi tornano alla mente in questi giorni di sommovimenti anche violenti in Italia e nel mondo. Che cosa può assicurare a un uomo di oggi la possibilità di camminare sicuro quando la violenza sembra corrodere rapporti e azioni? La coscienza della inesorabile positività del reale: è proprio qui che la Chiesa identifica Dio come autore e affermazione della vita umana; che non abbandona la vita dopo averla chiamata all’essere. E, infatti, all’invocazione di Mosè risponde il Signore: «Io camminerò con te». «Dio non è separato dal mondo - ha scritto il Papa al Meeting di Rimini -, ma interviene. Egli si interessa a ciò che l’uomo vive, dialoga con lui, si prende cura di lui. Tutto ciò è testimoniato dalla storia di Israele», di cui noi ci sentiamo discendenza: ogni giorno in cammino, dentro e attraverso la foresta di errori e contraddizioni, per cui ci ritroviamo non diversi dagli altri, anzi sempre più chiaramente come tutti gli altri, ma con qualcosa di diverso dentro che incide sulla nostra vita. È per questo che ce ne stiamo quieti anche dentro la tempesta, non da stoici indifferenti a tutto e a tutti, ma perché certi nel nostro avanzare. «Tutta la vita chiede l’eternità». Questa frase tratta da una canzone composta quarant’anni fa da due liceali di Milano - e che i miei amici del Meeting hanno scelto come tema del loro raduno a Rimini -, documenta il primo impeto da cui sento descritta la mia esperienza: una passione per l’umanità. Non l’umanità come termine di una definizione di sociologi o di filosofi, ma quella che mi hanno comunicato mio padre e mia madre. Non esiste umanità se non nell’io, altrimenti sarebbe un’astrazione in nome della quale si possono compiere le più terribili ingiustizie. È perciò una serietà estrema che occorre per notare, per raccogliere le esigenze, le aspirazioni che definiscono l’umano. Il verso d’inizio della canzone citata dice: «Povera voce di un uomo che non c’è, la nostra voce se non ha più un perché». La soglia del perché è l’aspirazione a un significato che tutto spieghi e compia. Un uomo che trascuri tale aspirazione non ama veramente se stesso: è come se fuggisse, è come se fosse sempre fuori. Riempie il silenzio con il clamore dei suoi pensieri, essendo incapace o pauroso di ritrovarsi di fronte alla nudità, alla povertà inerente le esigenze, le domande profonde di cui è costituito, per le quali sua madre l’ha fatto. Fugge nella distrazione e normalmente cerca rifugio nella dimenticanza o, peggio, nella giustificazione di quello che fa. Così, l’ideologia domina non solo la società, ma anche il piccolo mondo dei rapporti privati, familiari e di amicizia. L’insoddisfazione che sta al termine anche di ogni riuscita - perché ogni riuscita, dopo il primo momento di ebbrezza, sempre ripropone un problema - conferma che l’uomo è alla ricerca della sua strada. L’avvenimento cristiano è per rispondere alla domanda di infinito che è il cuore dell’uomo. Così che l’uomo cammini: «homo viator», un uomo che si avvicina con il movimento che è stato in lui immesso, che è stato fatto nascere in lui dal Mistero che fa tutte le cose e del quale è reso cosciente dall’incontro, dagli incontri della vita. Cristo investe il nostro io nella sua totalità e perciò tutte le azioni sono influenzate, determinate da questo rapporto. Tra l’altro, questa è la ragione per cui la Chiesa, come ha scritto Galli della Loggia sul «Corriere», è «irriducibile» a qualunque potere del mondo. Nell’esperienza cattolica il rapporto con Cristo è un rapporto tra uomini: insinua criteri, purifica punti di vista, sostiene nelle delusioni, suggerisce accorgimenti, soprattutto non permette la parzialità, la faziosità e protende al riconoscimento e all’affronto della totalità dei fattori che sono nella realtà. Sì, la totalità dei fattori nei rapporti, nella società, nella politica, che dovrebbe essere il luogo dove tale totalità viene considerata. Così sulla politica non si scaricherebbe la responsabilità di dare la salvezza. Il secolo passato ha dimostrato che questa pretesa diventa parzialità, faziosità, ideologia, idolo moderno: «usura, lussuria e potere», come diceva Eliot. Per il cristiano fedele al Papa e alla Tradizione non esiste espressione della vita che non possa essere investita dalla coscienza del rapporto con Cristo. Nella nostra esperienza questo rapporto sospinge a riconoscere una verità che, senza lasciare tregua, ci rende, di fronte a tutti i problemi, senza pretesa, senza preconcetti, indomabilmente aperti a tutto e a tutti, umili e continuamente capaci di riprendere e di cambiare. Cercare di vivere dentro questo punto di vista è l’affronto del reale che mi è stato consegnato come dovere del cuore da chi ha amato la mia vita. |
Luigi
Giussani
*Fondatore di
Comunione e liberazione
Corriere della Sera,
24/08/2001