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Qual è il significato della parola "Pace"


Luigi Giussani

CARO Direttore, la bomba collocata nei giorni scorsi sul Duomo di Milano fa pensare a un attacco al luogo sorgente "di pace e di riconciliazione per tutti", come ha detto il cardinale Martini commentando l'accaduto. Tutti si appellano alla pace, credenti e non credenti, sinistra e destra, una pace che tanto più è conclamata quanto più la violenza appare l'unico reale fattore prospettico di lavoro per l'uno o per l'altro degli elementi in contesa. Così ogni uomo che è condotto da una volontà di pace non riesce a evitare una diffidenza che rovina ogni aspetto di sicurezza.

Viviamo in un'epoca che sembra descritta dalla frase biblica "Io sono per la pace, ma quando ne parlo essi vogliono la guerra" (Salmo 119). Ma la coscienza dell'uomo può aprirsi a una possibilità di pace almeno in un punto: l'affermazione chiara e certa di un senso della vita umana. Questa è la potenza esortativa della parola pace: essa può dare rilievo al sentimento umano di tutta la vita stessa; chi la grida la sente motivo ultimo dei fattori determinanti la sua vita, sociale, familiare e personale. Il significato della parola pace impegna sempre la totalità dei sentimenti della vita; li implica secondo una giustizia che è tale di fronte al destino, minuscolo o maiuscolo.

Se c'è una parola atta a delineare questo "pondus" che ha il sentimento umano della pace, è la religiosità, la religiosità come dimensione della vita. Essa investe qualsiasi formula, implicando un ultimo scopo per cui un uomo accetta di esistere e agisce. Ciò per cui sentiamo necessario vivere rapporti di ogni genere, infatti, è il pre-sentimento di una positività ultima. Il giudizio che dà sulla vita di ogni giorno questo presentimento - che come tale è in tutti più spesso che no - può essere anche frutto di quel cinismo che nella nostra società abbonda.

Così, collocare la divinità - o, in altri termini, il supremo scopo dell'agire - nella potenza politica, potrà illudere le persone più impegnate, più pensose, circa la possibilità di realizzare quella che gli antichi chiamavano "pax romana" - una generica tolleranza verso tutti, salvo l'ultima parola che si riservava il potere politico, per cui era permessa un'attenzione a qualsiasi Dio purché non deprimesse la divinità dell'imperatore - e che nei nostri tempi si potrebbe chiamare "pax americana" o pace sociale.

Dico questo perché è più difficile trovare un uso vero della parola pace nelle grandi trame politiche ed economiche che non nel rapporto familiare fra l'uomo e la donna o nel groviglio di tendenze desiderose di adempimenti o di sazietà personali, cioè nel cuore dell'uomo.

Tutto questo convoglia l'attenzione e la devozione al Natale cristiano. L'unica ragione di questa festività sta nel fatto che il destino misterioso si è comunicato agli uomini identificandosi con un uomo nato da una vergine, perché poi destinato a morire per risorgere, rispondendo così all'attesa di chiunque.

La pace, allora, può essere sentita e vissuta e pensata solo a due condizioni: la vocazione, cioè la dipendenza da un Altro come disegno e giudizio sulla propria vita - come per la prima volta è emerso nella storia del popolo ebraico - e l'educazione alla conoscenza del bene e del male.

Per noi il Natale segnala come la vocazione di Cristo, la sua vita, sia stata la proclamata volontà di obbedire alla grande sorgente del Mistero, in una educazione vissuta come indefessa passione di conoscenza del bene e del male, così come emerge nella storia del suo popolo. Perciò la pace dipende dal fatto che l'uomo ammetta l'impossibilità di darsi la perfezione da se stesso, mentre indomabilmente riconosce il suo debito verso l'Essere.

Il Natale è tutto questo, sempre rilanciato a tutta l'umanità, come il sorgivo permanere di una proposta che la vita è, in qualunque condizione ognuno si trovi. Nella tenerezza davanti all'immagine di un bimbo appena nato l'infinita distanza dell'azione dell'uomo dal suo destino si colma come pace in un perdono. Per cui all'uomo che pensa, il Natale può apparire non frustrata dolcezza né disperazione. L'infaticabile umanità del Papa ci invita a questa sintesi ultima, in cui la dignità e la completezza dell'uomo sono tutto, cioè misericordia.

Luigi Giussani
La Repubblica, pagina 15,
24/12/2000