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di Camillo
Ruini
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Ruini e la ragione
rivelata a se stessa.pdf
Nel
Progetto culturale si esprime in veste laicale la «missionarietà dell’intero
popolo di Dio». Un vero e proprio «apostolato o diaconia delle coscienze
esercitati esplicitando le ragioni della propria fede e traducendo in
comportamenti effettivi e visibili la propria coscienza cristianamente
formata». Così il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, ha aperto
ieri i lavori dell’ottavo Forum del Servizio nazionale per il Progetto
culturale, il primo che si svolge dopo il Convegno nazionale di Verona. I
lavori, che si concludono nella mattinata di oggi, vertono sul tema «La
ragione, le scienze e il futuro delle civiltà». Oltre a toccare la questione
centrale del rapporto tra fede e ragione – come esemplificato dal Papa nel
discorso di Ratisbona e analizzato con una serrata critica alle posizioni
del filosofo tedesco Jürgen Habermas (pubblichiamo in questa pagina ampi
stralci dei passaggi della prolusione dedicati a tale tema) – il porporato
ha fatto una sorta di bilancio sul metodo utilizzato nell’appuntamento
scaligero. Con i cinque ambiti (affettività, lavoro e festa, tradizione,
fragilità, cittadinanza) è stata portata – ha detto Ruini – una novità che
«non solo "adatta" la pastorale all’attuale contesto socio-culturale, ma
corrisponde all’indole profonda dell’esperienza cristiana, caratterizzata da
un’attenzione primaria alla persona e alla sua concreta situazione di vita».
Prima del Convegno di Verona c'era stato il discorso di Ratisbona, con le
successive polemiche sull'islam e sui suoi rapporti con la ragione e con la
violenza, oltre che con il cristianesimo. Molto meno si è discusso del vero
tema di quel discorso, che è incentrato sull'affermazione che «non agire
secondo ragione è contrario alla natura di Dio» e sfocia nel programma di
allargare gli spazi della razionalità, proponendo così un dialogo, anzi un
nuovo incontro della fede cristiana con la ragione del nostro tempo. Pochi
giorni fa Jürgen Habermas, ultimo dei grandi rappresenta nti della scuola di
Francoforte ed autorevole interlocutore dell'allora cardinale Ratzinger nel
dibattito avvenuto il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera ed edito anche in
italiano dalla Morcelliana, ha rilanciato (in un articolo pubblicato
parzialmente su Il Sole 24 Ore del 18 febbraio con il titolo «Alleati
contro i disfattisti», che uscirà integralmente nel prossimo numero della
rivista Teoria politica) la proposta di un'alleanza tra la ragione
illuminata, ossia «la coscienza rischiarata della modernità» e «la coscienza
teologica delle religioni mondiali», al fine di «mobilitare la ragione
moderna contro il disfattismo che le cova dentro» e che si manifesta «sia
nella declinazione post moderna della "dialettica dell'illuminismo" sia
nello scientismo positivistico». Secondo Habermas, la ragione moderna può
facilmente venire a capo di questo disfattismo sul piano strettamente
teorico, ma, nella situazione concreta, non su quello della ragione pratica:
essendo venuta meno la garanzia della filosofia della storia, essa comincia
infatti a «dubitare della forza motivazionale delle sue buone ragioni».
Qual è però il tipo di alleanza che Habermas propone? Non «ambigui
compromessi tra ciò che resta inconciliabile», ossia tra la prospettiva
antropocentrica della ragione moderna e quella derivante dal pensiero
geocentrico e cosmocentrico. Se le due ragioni o coscienze vogliono davvero
parlare l'una con l'altra (e non solo l'una dell'altra), le religioni devono
riconoscere l'autorità della ragione "naturale" (le virgolette sono di
Habermas), vale a dire i fallibili risultati delle scienze nonché i principi
universalistici dell'egualitarismo giuridico, mentre la ragione secolare non
deve impancarsi a giudice delle verità religiose, anche se resta vero che
essa, «da ultimo, accetta per "ragionevole" soltanto ciò che si mostra
traducibile nei suoi discorsi», che devono essere, almeno idealmente,
accessibili a tutti. In concreto si tratta di una ragione c he la scienza
moderna ha costretto a sbarazzarsi per sempre della metafisica, limitando la
filosofia «alle sole competenze generali dei soggetti di conoscenza,
linguaggio e azione». È stata spezzata pertanto, secondo Habermas, la
sintesi di fede e ragione costruita a partire da sant'Agostino fino a san
Tommaso. La filosofia moderna ha saputo così appropriarsi criticamente
dell'eredità del pensiero greco (cioè appunto anzitutto della metafisica),
ma ha drasticamente respinto da sé il sapere giudaico-cristiano della
salvezza, ossia la rivelazione e la religione. Non si tratta di incollare
adesso questo strappo, ma di capire che la ragione secolare supererebbe
l'attuale opacità del proprio rapporto con la religione se prendesse sul
serio quell'origine comune di filosofia e religione che rinvia alla
rivoluzione dell'immagine del mondo che accadde a metà del primo millennio
avanti Cristo. Solo comprendendo entrambe le tradizioni che risalgono ad
Atene e a Gerusalemme come facenti sostanzialmente parte della propria
genesi storica, la ragione secolare potrà comprendere pienamente se stessa e
i suoi figli (Habermas intende sia i credenti sia i non credenti) potranno
accordarsi circa la loro identità e posizione nel mondo.
Su queste basi, nell'ultima parte del suo articolo, Habermas critica il
discorso di Ratisbona, con il quale Benedetto XVI avrebbe dato una piega
sorprendentemente antimoderna al dibattito su ellenizzazione o
deellenizzazione del cristianesimo, e in tal modo una risposta negativa alla
domanda se i teologi cristiani debbano sforzarsi di venire a capo delle
sfide suscitate da una ragione moderna e dunque postmetafisica.
Richiamandosi alla sintesi di metafisica greca e fede biblica elaborata a
partire da Agostino fino a Tommaso, Benedetto XVI negherebbe la bontà delle
ragioni che hanno prodotto nell'Europa moderna una polarizzazione tra fede e
sapere. Per quanto egli affermi di non voler «tornare dietro l'illuminismo e
congedarsi dalle scienze moderne», mos tra tuttavia «di voler respingere la
forza degli argomenti contro cui quella sintesi metafisica ha finito per
infrangersi». Habermas conclude che non gli sembra vantaggioso «mettere tra
parentesi - escludendole dalla genealogia di una "ragione comune" di
credenti, non credenti e altrimenti credenti - quelle tre spinte di
deellenizzazione (cfr. il discorso di Regensburg) che hanno contribuito a
far nascere l'idea moderna della ragione secolare».
Mi sono soffermato a lungo su questo intervento di Habermas perché esso ci
permette di cogliere con precisione i veri nodi del dialogo-confronto-nuovo
incontro tra fede cristiana e razionalità contemporanea, sui quali Joseph
Ratzinger-Benedetto XVI si è cimentato da ultimo nel discorso di Ratisbona
ma fin dalla sua prolusione del 1959 all'Università di Bonn, dedicata al Dio
della fede e al Dio dei filosofi, che sta finalmente per uscire in italiano
presso la Marcianum Press, e poi attraverso tutto il suo lavoro teologico,
da Introduzione al cristianesimo fino a Fede Verità Tolleranza. Il
cristianesimo e le religioni del mondo e a L'Europa di Benedetto nella
crisi delle culture, ed ora nei suoi interventi come Pontefice.
È impossibile non rilevare nel discorso di Habermas un paio di "precomprensioni"
abbastanza datate e oserei dire anacronistiche, che mostrano come anche un
pensatore di alto livello e proteso alla ricerca di un'alleanza con il
pensiero cristiano rimanga tuttora condizionato nel suo approccio ad esso.
La prima è il ricondurre la fede e la teologia cristiana alle prospettive
derivanti dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Basterebbe ricordare in
proposito l'enciclica Dives in misericordia, n.1, dove Giovanni Paolo
II affermava invece che la prospettiva del cristianesimo è simultaneamente e
inseparabilmente antropocentrica e teocentrica, formulando questa precisa
diagnosi: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel
presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a
contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece,
seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera
organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse
il più importante, del Magistero dell'ultimo Concilio».
La seconda precomprensione di Habermas sta nel ritenere che la sintesi tra
metafisica greca e fede biblica sia stata elaborata a partire da Agostino
per arrivare a Tommaso. Proprio nel discorso di Ratisbona Benedetto XVI ci
ha detto che con l'affermazione «In principio era il lógos» l'evangelista
Giovanni «ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio»,
nella quale «tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica
raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi», e pertanto l'incontro
tra il messaggio biblico e il pensiero greco «non era un semplice caso», ma
aveva invece una sua «necessità intrinseca». A Ratisbona il Papa presenta
con brevi parole le fasi di sviluppo di questo processo, a partire dall'«Io
sono» con cui Dio si rivela a Mosé nel roveto ardente, ma ad illustrare e
fondare tutto ciò Ratzinger ha dedicato a più riprese molte pagine, nei
libri che ho già ricordato. In virtù di questa sintesi già il primo Concilio
ecumenico, quello dell'anno 325 a Nicea, assai prima che Agostino nascesse,
poteva affermare solennemente che il Figlio è «consustanziale» (omooúsios)
al Padre, come professione di fede vincolante per tutti i credenti in
Cristo. Ho formulato un piccolo riassunto di questi punti del lavoro
teologico di Ratzinger - dando anche i riferimenti bibliografici - nella
relazione che ho tenuto ai sacerdoti di Roma il 14 dicembre scorso e che
sarà pubblicata a brevissimo termine presso le edizioni Cantagalli, in un
libretto dal titolo Verità di Dio e verità dell'uomo.
Qui mi preme piuttosto chiarire un interrogativo, avanzato anzitutto in
ambito cattolico, su come si con cili l'affermazione secondo la quale «In
principio era il lógos» è «la parola conclusiva del concetto biblico di Dio«
con l'altra, posta a titolo dell'enciclica di Benedetto XVI Deus caritas
est, che Dio è agápe (1 Gv 4,8.16) e in concreto che «all'inizio
dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì
l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo
orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).
Certo, si può e si deve anzitutto precisare che in Dio lógos e agápe,
ragione-parola e amore, si identificano, ma Ratzinger-Benedetto XVI non si
limita a questo. Per lui il legame intrinseco tra la fede biblica e
l'interrogarsi greco è soltanto una metà del discorso: l'altra metà è
costituita dalla novità radicale e dalla diversità profonda della
rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, anzitutto riguardo al
tema centrale della religione che è Dio. Il Dio della Bibbia supera infatti
radicalmente ciò che i filosofi avevano pensato di Lui, non soltanto perché
Egli, in quanto Creatore sommamente libero, è distinto dalla natura in un
modo ben più decisivo di quel che poteva avvenire nella filosofia greca, ma
soprattutto perché questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi
non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera,
come ritenevano i filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l'uomo e per
questo entra nella nostra storia, dà vita ad un'autentica storia d'amore con
Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di
amore e di salvezza all'intera umanità ma la conduce all'estremo, al punto
cioè di «rivolgersi contro se stesso», nella croce del proprio Figlio, per
rialzare l'uomo e salvarlo, anzi per chiamarlo ad un'intima unione di amore
con Lui. È questo il senso in cui il Dio biblico è agápe, amore che si dona
gratuitamente, ed è anche eros, amore che vuole unire intimamente l'uomo a
sé (cfr. Deus carita s est, 9-15). Così la fede biblica riconcilia
tra loro quelle due dimensioni della religione che prima erano separate
l'una dall'altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi e il
bisogno di salvezza che l'uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane
tentavano in qualche modo di soddisfare. Il Dio della fede cristiana è
dunque sì il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente, il Dio della
storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel più intimo rapporto con
noi. È questa, secondo Ratzinger, l'unica risposta adeguata alla questione
del Dio della fede e del Dio dei filosofi.
Torniamo ora all'articolo di Habermas, per affrontare il punto centrale del
suo dissenso dal discorso di Ratisbona e più ampiamente dall'impostazione di
fondo del pensiero e dell'insegnamento di Benedetto XVI. Habermas persegue
con sincerità personale e intellettuale un'alleanza tra ragione
secolarizzata e "illuminata" e ragione teologica, ma in realtà concepisce
questa alleanza su basi nettamente diseguali. Infatti, mentre la ragione
teologica dovrebbe accettare l'autorità della ragione secolare
postmetafisica, quest'ultima, pur non impancandosi a giudice delle verità
religiose, «da ultimo» accetta come «ragionevole» soltanto ciò che si mostra
traducibile nei suoi discorsi, quindi, alla fine, non le stesse verità
religiose nel loro principio trascendente (il Dio che si rivela) e nel loro
contenuto sostanziale e decisivo. Nella stessa linea "Gerusalemme" è accolta
come facente parte, accanto ad "Atene", della genesi storica della ragione
secolare, ma non come attualmente ragionevole. In ultima analisi Habermas
non esce da quella "chiusura" su se stessa in cui Ratzinger vede il limite
della ragione soltanto empirica e calcolatrice.
Ben diversamente aperta è invece la prospettiva dello stesso
Ratzinger-Benedetto XVI. Egli infatti, a Ratisbona e più ampiamente in altri
testi che ho già richiamato, sostiene sì con decisione che all'origine
dell'universo vi è il Lógos creatore, sulla base dell'esame delle strutture
e dei presupposti della conoscenza scientifica, e in particolare della
corrispondenza che non può non sussistere tra la matematica - che è una
creazione della nostra intelligenza - e le strutture reali dell'universo,
dato che, se questa corrispondenza non ci fosse, le nostre previsioni
matematiche e le nostre tecnologie non potrebbero funzionare: tale
corrispondenza implica però che l'universo stesso sia strutturato in maniera
razionale e pone la grande domanda se non debba esservi un'intelligenza
originaria, fonte comune di questa realtà "razionale" e della nostra
razionalità.
Anche con altre motivazioni Ratzinger mostra che la razionalità non può
essere spiegata con l'irrazionale e che il soggetto umano non può essere
ricondotto ad un oggetto né conosciuto adeguatamente attraverso i modi e i
metodi con cui si conoscono gli oggetti. Egli è però pienamente consapevole
non solo che questo genere di considerazioni e argomentazioni vanno al di là
dell'ambito della conoscenza scientifica e si pongono al livello
dell'indagine filosofica, ma anche che sullo stesso piano filosofico il
Lógos creatore non è l'oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane
«l'ipotesi migliore», un'ipotesi che esige da parte dell'uomo e della sua
ragione «di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella
dell'ascolto umile». In concreto, specialmente nell'attuale clima culturale,
l'uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa
«ipotesi migliore»: egli rimane infatti prigioniero di una «strana penombra»
e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e
dall'etica. Soltanto la rivelazione, l'iniziativa di Dio che in Cristo si
manifesta all'uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende davvero capaci
di superare questa penombra (cfr. L'Europa di Benedetto, pp. 59-60;
115-124).
Proprio la percezione di una tale «strana penombra» fa sì che l'atteg
giamento più diffuso tra i non credenti oggi non sia propriamente l'ateismo
- avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno
della fede in Dio - ma l'agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a
Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che Ratzinger dà a
questo problema ci riporta verso la realtà della vita: a suo giudizio
infatti l'agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non
realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è
soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli
ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due
alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse,
oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia
esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un'appendice da
togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l'origine, il senso
e il fine dell'universo, e dell'uomo in esso. Se agisco secondo la prima
alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se
mi decido per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la
questione di Dio è dunque ineludibile (cfr. L'Europa di Benedetto,
pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto
questo profilo, tra questione dell'uomo e questione di Dio: entrambe, per la
loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l'impegno
della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni
eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete
scelte di vita.
Proprio nel considerare la prospettiva credente come un'ipotesi, sia pure
quella migliore, che come tale implica una libera opzione e non esclude la
possibilità razionale di ipotesi diverse, Ratzinger-Benedetto XVI si mostra
sostanzialmente più aperto di Habermas e della «ragione secolare» di cui
Habermas si pone come interprete: essa accetta infatti co me «ragionevole»
soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi.
In questa "assolutizzazione" della ragione secolare abbiamo in qualche modo
il corrispettivo, a livello teoretico, di quella "dittatura" o
assolutizzazione del relativismo che si verifica quanto la libertà
individuale, per la quale tutto è finalmente relativo al soggetto, viene
eretta a criterio ultimo al quale ogni altra posizione deve subordinarsi
(vedi la mia prolusione al Forum del 2 dicembre 2005).
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