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di
Rodolfo Casadei
Il Summit
alimentare mondiale della Fao che si svolgerà a Roma fra il
10 e il 13 giugno prossimi sarà, con tutta probabilità,
una nuova occasione mancata per quanto riguarda la
“governance” della globalizzazione. A parole, tutti
affermano che i processi di integrazione mondiale che vanno
sotto quel nome devono essere governati, ma quando si tratta
di venire al dunque con analisi e proposte sensate, il
risultato è sempre lo stesso: slogan ed invettive,
chiacchere e distintivi, massimalismi e discorsi di
circostanza. L’appuntamento romano avrebbe le carte in
regola per essere gestito come un’occasione propizia: il
tema all’ordine del giorno è la verifica dello stato
d’attuazione degli impegni assunti dalla comunità
internazionale al vertice Fao del 1996, il principale dei
quali era il dimezzamento del numero degli affamati nel
mondo entro il 2015 (cioè passare da 800 e a 400 milioni).
Le cose non stanno andando come si era auspicato: anziché
diminuire di 20 milioni all’anno (ritmo necessario per
centrare l’obiettivo fissato al summit del ’96), gli
affamati stanno calando al più blando ritmo di 6 milioni
all’anno. Si tratta dunque di mettere a punto nuove
strategie per accelerare il trend attuale, e a questo
riguardo gli organizzatori dimostrano di non avere
preclusioni: dagli aiuti alimentari di emergenza alle
biotecnologie, dalla razionalizzazione della gestione delle
risorse idriche alla valorizzazione degli orti di città,
ecc., si parlerà di tutto.
Tre
errori di impostazione
Ma volete scommettere che la ribalta delle giornate romane
sarà occupata da altre “notizie”? Da uno show di José
Bové contro il complotto delle multinazionali che vogliono
costringere gli agricoltori di tutto il mondo a comprare i
loro semi Ogm, dannosi per la salute e per l’ambiente?
Dalle invettive di padre Zanotelli contro “la
globalizzazione che uccide”? Dal duo Casarini &
Agnoletto che denuncerà la repressione poliziesca contro i
No Global? E che il summit ufficiale reagirà a queste
pressioni producendo documenti ricchi di equilibrismi
politici (e politicamente corretti) e poveri di contenuti?
Dove sta l’errore? Se ne possono sottolineare almeno tre.
Il primo è la mancanza di considerazione –talvolta fino
alla negazione pura e semplice- per la realtà. Chi ha
annunciato la morte delle ideologie ha preso un abbaglio: la
questione globalizzazione oggi è un grande festival
dell’ideologia e della sua caratteristica principale,
quella di estrarre dalla ricchezza e dalla complessità
della realtà un particolare e assolutizzarlo. Nessuno tenta
di portare lo sguardo sulla realtà nella totalità dei suoi
fattori, ma ciascuno preleva il singolo fattore che, isolato
dalla totalità, serve ad avvalorare il pregiudizio da cui
egli parte e attorno a cui intende organizzare consenso e
potere. è evidente che non si dà alcuna comprensione dei
processi di globalizzazione senza dietro un’idea di
globalità, ma oggi il problema è proprio questo: la
globalità che filo-Global e No Global danno per sottintesa
non coincide per nulla con la realtà intesa come totalità,
è un’astrazione che è il risultato dell’approccio
ideologico alla realtà.
Meccanismi
contrapposti
Il secondo errore è parente del primo, e si chiama
meccanicismo: settant’anni dopo i versi dei Cori della
Rocca di Eliot, i nostri contemporanei continuano a sognare
«sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno
d’essere buono». Gli uni pensano che la “mano
invisibile” del mercato sia in grado di fare tutto da sé:
produzione e distribuzione ottimale dei beni; gli altri,
sostanzialmente fermi all’errore social-comunista, credono
ancora che il benessere si possa creare e distribuire per
decreto, e si attendono la salvezza dalle “regole”,
dirigisticamente imposte dall’alto a Stati e operatori
economici e finanziari. Abbiamo sentito con le nostre
orecchie il dott. Vittorio Agnoletto teorizzare un mondo in
cui l’Assemblea delle Nazioni Unite dovrebbe essere la
sede di un potere legislativo mondiale sulla base del
principio “uno Stato, un voto” (pensate: quel consesso
di grandi democratici che ha preferito il Sudan agli Stati
Uniti come membro della Commissione per i diritti umani, e
per sovrappiù dando lo stesso peso al voto di paesi
piccolissimi e di Stati-continente come la Cina, l’India,
gli Usa o il Brasile). Intendiamoci bene: i due modelli
economici, quello del libero mercato e quello dirigista, non
sono nemmeno lontanamente paragonabili. L’economia
centrata sulla competizione e sul profitto è enormemente più
abile nel rispondere alla domanda di beni e servizi di
quanto non sia mai stata quella imperniata sulla
pianificazione centrale e la proprietà statale dei mezzi di
produzione. Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, un
cittadino tedesco e un cittadino cecoslovacco avevano lo
stesso Prodotto interno lordo (Pil) pro capite.
Cinquant’anni dopo, al momento della caduta del Muro di
Berlino, un cittadino di Monaco usufruiva di un reddito che
era esattamente il doppio di quello di un cittadino di
Praga, che nel frattempo aveva dovuto fare i conti con mezzo
secolo di comunismo. Non c’è dubbio però che la
“fede” nei due differenti sistemi ha in comune lo stesso
presupposto erroneo: che la libertà e la coscienza
dell’uomo contino poco di fronte al carattere di necessità
dei meccanismi economici (liberismo), ovvero che contino
solo in negativo, per cui la “giustizia economica” si può
ottenere solo azzerando la libertà umana (comunismo). Tutti
i discorsi, allora, si centrano sulle riforme da apportare
al sistema, o sulla necessità di rivoluzionarlo, anziché
sull’educazione e sulla valorizzazione della libertà
umana. E qui entra il terzo errore, che di fatto sta a monte
degli altri due: la visione riduttiva che dell’educazione
hanno soprattutto i No Global. Avremmo bisogno di maestri
che ci introducano alla realtà totale e alla responsabilità
che essa ci chiede; e invece ci ritroviamo circondati di
maestri narcisisti che introducono i discepoli non alla
realtà totale, ma ad un senso di colpa opprimente e al
culto della personalità (cioè dell’immagine) del
maestro. L’educazione viene pertanto programmaticamente
esclusa per quanto riguarda i popoli poveri (il loro
problema è solo e sempre quello di essere sfruttati dai
popoli ricchi, non c’è nessun bisogno di aiutarli a
cambiare gli aspetti retrogradi e anti-umani delle loro
culture), mentre per quanto riguarda il Nord del mondo è
ridotta al farisaismo del “consumo critico”: si
“boicottano” per motivi etici determinati prodotti
provenienti dal Terzo mondo, senza chiedersi se questo non
farà che peggiorare le condizioni dei poveri di laggiù,
privati di un’occasione di reddito senza alternative; si
chiama “commercio equo” quella che rischia di essere una
forma di assistenzialismo paternalista (pensate al potere
discrezionale di chi decide chi sono i poveri che
“meritano” di entrare nel circuito, o alla
mortificazione di energie imprenditoriali locali che
sarebbero capaci di confrontarsi col mercato); si disperdono
risorse finanziarie nei mille rivoli della “finanza
etica” anziché concentrarle in strumenti istituzionali di
finanza per lo sviluppo che farebbero massa critica per gli
investimenti di cui i poveri avrebbero bisogno. Sono le
scelte di un’educazione che privilegia l’apparire giusti
(cioè l’immagine di sé narcisisticamente coltivata)
sull’essere giusti, che umanamente in altro non può
consistere che nell’assumersi la responsabilità degli
effetti ultimi, intenzionali o non intenzionali, delle
proprie azioni.
La
realtà della globalizzazione
La realtà della globalizzazione è fatta, come ogni realtà
umana, di luci ed ombre, ma le luci sono molto più numerose
e intense di quanto il catastrofismo ideologico e
apocalittico dei No Global riescano a far credere a tanti.
Non è vero che la globalizzazione ha aumentato il numero
degli affamati: lo ha abbassato, anche se più lentamente di
quanto desiderato. Non è vero che la globalizzazione ha
aumentato il numero dei poveri: l’ha fatto diminuire. Non
è vero che la globalizzazione ha peggiorato la qualità
della vita nei paesi più poveri: l’ha migliorata. Non è
vero che l’apertura dei mercati al commercio
internazionale è svantaggiosa per i Paesi in via di
sviluppo (Pvs): quelli di loro che hanno intensificato il
commercio con l’estero stanno meglio di quelli che non
l’hanno fatto. Non è vero che la presenza delle
multinazionali aumenta lo sfruttamento dei lavoratori nel
Terzo mondo: al contrario, migliora le loro retribuzioni.
Non è vero che la globalizzazione sta deforestando il
pianeta: la percentuale di terre boscose sta aumentando. Non
è vero che l’aria e l’acqua sono più inquinate: lo
sono meno di vent’anni fa. Non è vero che il debito
estero del Terzo mondo sta esplodendo: quello relativo sta,
seppur lentamente, diminuendo. E' invece vero che la
diseguaglianza globale fra i più ricchi e i più poveri è
andata accentuandosi (ma con un interessante riaggiustamento
proprio negli anni Novanta). è vero che le crisi
finanziarie si ripercuotono facilmente da un capo
all’altro del pianeta a causa della globalizzazione dei
mercati finanziari. è vero che ci sono settori (la mortalità
materna, il lavoro minorile) o regioni del mondo (l’Africa
sub-sahariana, i paesi ex sovietici) dove non si registrano
miglioramenti o addirittura arrivano dati peggiori. Ma non
sono certo le ricette dei No Global (Tobin Tax, clausole
sociali, pianificazione della produzione e del commercio
agricolo, cancellazione incondizionata del debito estero,
scoraggiamento degli investimenti delle multinazionali nel
Terzo mondo) che miglioreranno la situazione: la
peggiorerebbero senza dubbio alcuno.
La
verità dei numeri
Quanto sopra asserito può essere dimostrato attraverso la
semplice lettura delle statistiche più aggiornate e
autorevoli sulle varie materie. Cominciamo dai dati sulla
fame e la malnutrizione, di cui si discuterà a Roma. Il
numero degli affamati è sceso dagli 840 milioni del 1990 a
777 in un momento imprecisato del triennio 1997-99, e
secondo le stime dell’Onu dovrebbe ridursi di altri 200
milioni entro il 2015. In termini percentuali, i malnutriti
erano il 50% della popolazione del Terzo mondo nel 1950,
erano il 37% nel 1969-71 e sono scesi al 17% nel triennio
1997-99. La denutrizione infantile è ugualmente arretrata:
riguardava il 46,5% dei bambini sotto i 5 anni nel 1970,
riguarda il 27% di loro nel 2000. E si tenga presente che
nel frattempo la popolazione mondiale è passata dai 3
miliardi di abitanti del 1960 ai 6,3 di oggi. Ma la
produzione ha saputo tenere testa all’incremento della
popolazione: nonostante gli abitanti del mondo siano più
che raddoppiati fra il 1960 e il 2000, la disponibilità
alimentare è aumentata anziché diminuire, tanto che oggi
gli abitanti dei Pvs assumono in media quasi 2.700 calorie
al giorno contro le appena 1.900 del 1960 (negli ultimi
dieci anni l’incremento è stato per l’esattezza da
2.463 a 2.663 calorie al giorno). Tali miglioramenti sono
avvenuti benché l’estensione delle terre coltivate sia
aumentata di poco: dagli 1,4 miliardi di ettari del 1960
agli 1,5 miliardi di oggi. Il miracolo è stato reso
possibile dalla “Rivoluzione verde” degli anni Settanta,
che ha introdotto nel Terzo mondo varietà selezionate di
semi ad alto rendimento, fertilizzanti sintetici e
pesticidi. In un quarto di secolo indiani e cinesi hanno
potuto così aumentare la produttività delle loro risaie
dei due terzi. Per il futuro, però, serve una nuova
rivoluzione: la popolazione mondiale crescerà di altri 2
miliardi di unità entro il 2025, e la pressione ambientale
della Rivoluzione verde (leggi: l’inquinamento da
pesticidi e fertilizzanti) non sarà più sostenibile. I
mezzi per farla esistono già, e si chiamano biotecnologie,
ma i No Global si oppongono furiosamente sostenendo che gli
Ogm sono pericolosi per la salute e per l’ambiente, e che
creerebbero una dipendenza dei contadini dalle
multinazionali. La prima asserzione è priva di riscontri,
la seconda è puramente ideologica. Dal 1996 prodotti Ogm
sono venduti sugli scaffali di Usa, Canada e Argentina senza
grossi problemi (si è manifestata unicamente la necessità
di avvertire chi è allergico ad alcuni frutti tropicali
circa la presenza dei geni relativi in taluni alimenti) e la
Cina ha incrementato la sua produzione di cotone grazie a
una varietà transgenica (i danni del cotone transgenico
alle larve di farfalla sono segnalati solo in laboratorio).
L’acquisto di sementi Ogm da parte dei contadini non è in
nulla diverso dall’acquisto di fertilizzanti e pesticidi
da mezzo secolo a questa parte: si tratta di mezzi di
produzione che vengono dall’esterno del podere: e allora?
In realtà, al di là delle giuste precauzioni da prendere
in questa fase primordiale dell’agricoltura biotecnologica,
balza agli occhi che l’opposizione dei No Global ha
ragioni tutte politiche: le nuove tecniche rischiano di
sottrarre loro il monopolio della rappresentanza dei diritti
dei contadini poveri, allo stesso modo in cui il
cristianesimo sociale e la socialdemocrazia da una parte, il
progresso tecnologico dall’altra, strapparono ai comunisti
il monopolio della rappresentanza degli interessi della
classe operaia. Le biotecnologie ci regaleranno il riso
arricchito di vitamina A, che salverà dalla cecità per
avitaminosi mezzo milione di bambini all’anno; la
possibilità di vaccinare a costi bassissimi milioni di
bambini attualmente esclusi dai cicli vaccinali
semplicemente facendo loro mangiare banane Ogm; cibi che
preverranno l’insorgere del cancro perché arricchiti di
appositi geni. Se non prevarrà l’oscurantismo
politicamente motivato.
Segnali
incoraggianti
Anche altri settori mostrano dati almeno moderatamente
incoraggianti: nel corso degli anni Novanta il numero dei
poveri assoluti (reddito inferiore ad 1 dollaro ppa - parità
di potere d’acqiuisto - al giorno) nel mondo è diminuito
di 125 milioni di unità, e in percentuale è sceso dal 29%
al 23% della popolazione dei Pvs, che intanto è cresciuta
di oltre mezzo miliardo di unità. La qualità della vita è
nettamente migliorata: in 50 anni i paesi poveri hanno fatto
più progressi che nei 500 anni precedenti. La speranza di
vita alla nascita, che nel 1900 era di 26 anni (46 nei paesi
industrializzati nello stesso anno), ed era diventata di 46
nel 1960 (64 nei paesi ricchi), oggi, nonostante la piaga
dell’Aids in Africa, ha raggiunto i 64,5 anni (contro i 78
dei paesi industrializzati). La mortalità infantile sotto i
5 anni è stata più che dimezzata fra il 1960 ed oggi,
passando dal 222 per mille al 90 per mille (nell’ultimo
decennio è scesa dal 102 al 90 per mille). Come risultato
di questo, oggi muoiono 3 milioni di bambini in meno
all’anno rispetto all’inizio degli anni Novanta. Anche
nei 40 paesi più poveri del mondo la mortalità infantile
è diminuita di un terzo negli ultimi trent’anni. Tutto ciò
grazie all’aumento della produzione alimentare, agli
antibiotici, alle soluzioni reidratanti e alle vaccinazioni:
la copertura vaccinale delle sei principali malattie
infettive è passata dal 5% del 1974 al 74% del 1998. Anche
i redditi sono nettamente aumentati, benché non ovunque:
fra il 1975 e il 1998 il reddito medio pro capite nei Pvs è
quasi raddoppiato, passando da 1.300 a 2.500 dollari ppa.
Mentre due secoli fa il primo paese industrializzato, cioè
il Regno Unito, ci mise 58 anni a raddoppiare per la prima
volta il suo reddito pro capite, gli Stati Uniti ce ne
misero 47 e la Germania 43, nel corso del XX secolo la Corea
del Sud ha fatto la stessa cosa in appena 11 anni, il Cile
in 10 e la Cina popolare lo raddoppia ogni 9. Contrariamente
a quanto afferma la vulgata No Global, i paesi che hanno
registrato i maggiori progressi sono quelli che hanno aperto
le loro economie agli scambi. Lasciando da parte i paesi
esportatori di petrolio, i maggiori tassi di crescita media
annua del Pil nel decennio 1990-2000 li hanno registrati la
Cina popolare (+10,3%), Singapore e il Vietnam (+7,9%),
l’Irlanda (+7,3%), la Malaysia e l’Uganda (+7%), il Cile
(+6,8%), ecc., cioè i paesi che più si sono integrati
nell’economia mondiale. Paul Collier e David Dollar hanno
fotografato la realtà del rapporto fra andamento del Pil e
partecipazione al mercato globale nel loro studio
Globalization, Growth and Poverty: Building an Inclusive
World Economy. In esso il mondo risulta diviso in tre
regioni: quella dei paesi di consolidata industrializzazione
(1 miliardo di persone), il cui Pil è aumentato mediamente
del 2% nel periodo 1980-1998; quella dei paesi poveri
globalizzati (3 miliardi di persone), che hanno registrato
un tasso di crescita del 5% nello stesso periodo e quella
dei paesi poveri “meno globalizzati” (2 miliardi di
persone), che hanno invece conosciuto una crescita media
annua negativa dell’1%. Questi miglioramenti si trovano
tutti riflessi nell’Isu, l’Indice dello sviluppo umano
creato dal sociologo delle Nazioni Unite Mahbub ul Haq per
misurare il progresso in termini di benessere sociale e non
soltanto di reddito. L’Isu risulta dalla media ponderata
di tre indici: reddito pro capite, speranza di vita alla
nascita, tasso di alfabetizzazione degli adulti. Fra 0,8 e 1
si parla di sviluppo umano alto, fra 0,799 e 0,5 si parla di
sviluppo umano medio, sotto 0,5 si parla di sviluppo umano
basso. Nel 1999 i paesi a Isu basso erano 36, nel 1994 erano
stati 45. L’Isu medio dei Pvs è cresciuto dallo 0,576 del
1994 allo 0,647 del 1999. Nei dieci anni fra il 1990 e il
1999 la Cina ha guadagnato 94 millesimi di Isu, il Vietnam
78, la Corea del Sud e l’India 61. I progressi suddetti
sono anche merito degli investimenti esteri diretti (che nei
Pvs sono complessivamente passati da 2,2 miliardi di dollari
nel 1970 a 185,4 miliardi nel 1999) e dell’arrivo delle
multinazionali. Se raffrontiamo gli stipendi medi pagati
dalle aziende locali nel Terzo mondo con quelli pagati dalle
multinazionali, notiamo subito che è più conveniente
lavorare per le seconde: uno studio dell’Institute for
International Economics ci informa che nel 1994 nei paesi
ricchi lo stipendio medio del dipendente di una
multinazionale era 1 volta e mezzo quello del dipendente di
una ditta nazionale (32.400 dollari contro 22.600
all’anno), mentre nei paesi a basso reddito era
esattamente il doppio (3.400 dollari contro 1.700). Il
debito estero è un problema serio per i paesi più poveri
(dove però un leggero miglioramento è in corso, il
rapporto debito/esportazioni è passato dal 144% del 1984 al
137% del 1999), ma va notato che non tutti i paesi
indebitati hanno usato i soldi nello stesso modo: la
Malaysia ha un debito estero per abitante pari a 2.000
dollari, e un reddito pro capite di 7.640; lo Zambia ha un
debito estero pro capite di 600 dollari e un reddito pro
capite di 770. Morale: c’è chi sa far fruttare i suoi
debiti, e c’è chi li spreca.
La
questione diseguaglianza
Ma, si dice, la diseguaglianza fra i più ricchi e i più
poveri sta aumentando: il rapporto fra il reddito del 20% di
umanità più povera e il 20% di umanità più ricca era 1 a
30 nel 1960, è salito a 1 a 72 nel 1973 e a 1 a 82 nel
1995. E’ verissimo, ma non è un effetto della
globalizzazione: è una tendenza in atto da quando è nata
la moderna economia capitalista nel XVIII secolo. Da allora
il divario è andato sempre aumentando, e anche la
diseguaglianza nella distribuzione generale del reddito,
misurata scientificamente dall’indice Gini. La
globalizzazione degli anni Novanta semmai ha un po’ chiuso
la forbice: per la prima volta in oltre due secoli
l’indice Gini è sceso di valore, passando da 0,55 a 0,50.
Il merito è soprattutto della Cina, dove centinaia di
milioni di persone hanno visto aumentare i loro prima
bassissimi redditi. Anche su questo argomento, però,
bisogna sfuggire alle trappole ideologiche: nei paesi poveri
l’avvento della diseguaglianza reddituale è in realtà
una buona notizia, perché segnala un miglioramento
complessivo della situazione. Nelle società pre-capitaliste,
infatti, c’è poca diseguaglianza perché quasi tutti sono
poverissimi, nelle società in via di modernizzazione invece
c’è maggiore diseguaglianza perché la nuova ricchezza
non è spalmata omogeneamente, ma beneficia alcuni più e
altri meno. Però è una ricchezza molto maggiore di quella
che veniva creata in precedenza, perciò le condizioni di
quasi tutti finiscono per migliorare, benché in modo
diseguale. Basti pensare che fra l’anno 1000 e l’anno
1700 il Pil mondiale pro capite è cresciuto appena da 130 a
160 dollari di oggi; poi in 300 anni è balzato da 160 a
6.500: ovvio che tutti stanno meglio, anche se alcuni stanno
molto meglio di altri. La redistribuzione della ricchezza è
certamente un problema per qualunque società che non voglia
andare incontro ad aspri conflitti sociali o a rivoluzioni.
Il prelievo fiscale, le forme mutualistiche e cooperative
della solidarietà, le donazioni liberali, gli aiuti fra
Stati, gli accordi commerciali preferenziali sono
altrettante forme, interne e internazionali, di
redistribuzione. Ma non c’è dubbio che il modo principale
per avere meno povertà nel mondo è educare i poveri a
produrre di più e meglio: insegnare a pescare anziché
regalare il pesce. Con un vantaggio aggiuntivo: chi si
libera dell’ignoranza difficilmente può essere sfruttato
(mentre convincere o costringere tutti gli esseri umani del
mondo a non sfruttare il prossimo è irrealistico, non fa i
conti coi limiti della condizione umana), e così anche la
questione della giustizia fra ricchi e poveri esce dalle
secche dei richiami moralistici e delle velleità
millenaristiche (la pretesa eretica di costituire il Regno
di Dio qui sulla terra).
Esempi
di sviluppo
Mille esempi tratti dall’esperienza dei missionari
cristiani e dei volontari avvalorano questo punto: è
l’educazione dell’umano che rende possibile lo sviluppo.
Racconta per esempio padre Giuseppe Fumagalli, missionario
Pime fra i felupe della Guinea Bissau: «Il cristianesimo dà
sicurezza, serenità di spirito, perché il cristiano sa che
Dio è Padre e ci vuole bene. Per svilupparsi, l’uomo ha
bisogno di sentirsi amato, protetto e perdonato da Dio. Il
felupe che non conosce così Dio, è circondato dal mistero,
vive nel terrore delle forze misteriose che lo circondano,
di cui ignora la natura e le intenzioni… Alcuni anni fa è
venuta qui fra i felupe una équipe di studiosi universitari
francesi e sono tornati per due mesi quattro anni di
seguito. Studiavano i bambini, le loro malattie e la
mortalità infantile. Hanno visitato e studiato i villaggi
felupe, facendo inchieste approfondite. Alla fine sono
venuti a dirmi: “Abbiamo constatato una cosa bellissima e
vogliamo dire grazie alla missione cattolica: nei villaggi
pagani muoiono due bambini su tre, nei villaggi cristiani o
influenzati dalla scuola e dalle idee cristiane ne muore
meno di uno su tre. Voi avete fatto, con scarsi mezzi, una
educazione allo sviluppo che vi fa onore”». Al recente
Summit mondiale per i bambini organizzato dall’Onu un
rappresentante della Ong italiana Avsi ha così parlato: «Per
guardare un bambino in modo non parziale bisogna guardarlo
come una persona e quindi come un essere unico e
irripetibile, con i suoi legami fondamentali, in primo luogo
la famiglia, quindi irriducibile a qualunque potere, a
qualunque schema anche se prodotto da un’autorevole
organizzazione internazionale. è evidente in Messico, a
Oaxaca, dove con un accompagnamento costante dei ragazzi al
significato dello studio siamo riusciti a ridurre
l’abbandono scolastico. è evidente in Albania, dove il
governo ha sospeso la scuola di formazione degli insegnanti,
e allora Avsi ha coinvolto 200 educatori in corsi di
formazione ridando loro una dignità professionale e una
passione a sé e ai ragazzi. è evidente nel nord Uganda,
dove bambini rapiti e costretti a uccidere tornano azzerati
nella propria identità nelle comunità di origine, ma si
reinseriscono se trovano un educatore che li aiuti a dare
senso alle esperienze fatte». «Dimenticando la persona, le
“buone azioni” come la remissione del debito,
l’aumento dei fondi per lo sviluppo, gli obiettivi di
sradicamento della povertà, l’istituzione dei fondi
globali, ecc. rischiano di andare incontro a grandi
fallimenti perché si limitano a elaborare e a imporre ai
Pvs linee guida perfette ma disumane, proprio come i piani
quinquennali di sovietica memoria. Ci siamo così resi conto
che ciò a cui ci ha educato il nostro carisma ha un valore
universale e che noi siamo chiamati a portarlo in tutto il
mondo, soprattutto in quei luoghi in cui si pianifica la
felicità dell’uomo del terzo millennio. In questa nuova
terra di missione è più che mai urgente dare battaglia per
la libertà di educazione, che sottende il rispetto della
persona e la valorizzazione dei suoi talenti. Non si tratta
di una contrapposizione ideologica, ma di proporre la
ricchezza della nostre esperienze come esempi praticabili,
con il metodo più semplice, il “vieni e vedi”».
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