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di Luca Doninelli
Nel tributo a
Marco Pantani, che Dio lo abbia in gloria, la Tv si è dimostrata mezzo più
adeguato della carta stampata. I giornali hanno versato i soliti fiumi
d’inchiostro per dire cose – specialmente nei commenti – che sapevamo già.
Quei ritratti scritti erano in realtà il nostro ritratto, parlavano con le
nostre parole, non con quelle del povero Marco Pantani.
Invece la Tv ci ha mostrato la lingua di Pantani, che era la bicicletta. Lo
abbiamo rivisto nei trionfi che ci hanno fatto battere il cuore. E se
l’assunzione di sostanze dopanti ha potenziato il suo fisico, ciò è stato
possibile perché il suo fisico era già eccezionale. Il suo non era soltanto
andare in bici, era un romanzo – ossia un rapporto profondo tra sé, il mezzo
meccanico e la lunga e dura strada in fondo alla quale c’era il traguardo.
Senza una profonda armonia tra queste cose non si vincono Giro e Tour nello
stesso anno.
Eppure, questo non basta a vivere. Niente basta a vivere. Le immagini che la
Tv ci ha riproposto tante volte in questi giorni sono belle e commoventi per
questo: perché ci ricordano quale mistero c’è dietro la grandezza dell’uomo
(sia egli ciclista, artista o guerriero).
Il campione, nell’arte come nello sport, conosce meglio degli altri la
tentazione della gloria, la speranza che un dono speciale, un bonus, gli
possa evitare la croce quotidiana.
Ma, come vedete, sulla carta queste son prediche, mentre le immagini tengono
insieme grandezza e illusione, bellezza e inganno, splendore e miseria. E
quello è lo sguardo giusto.
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