Pantani Marco:

 

Pantani nel deserto dei depressi
 

«Un deserto che si espande da quel presente muto in cui il depresso disabita per invivibilità ogni evento (…) in quella solitudine frammentata dove l’identico coglie quell’altra faccia della verità che è l’insignificanza dell’esistere».
 

 
Umberto Galimberti


La cosa più sconvolgente nella tragedia di Marco Pantani forse non è la sua morte, ma l'assoluta solitudine in cui era stata lasciato negli ultimi anni, quando le glorie del campione cedevano il posto alle sofferenze mute e forse abissali dell'uomo.

Educati come siamo alla cultura dell'applauso non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell'ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz'ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso non lo troviamo mai. Con i farmaci, utili senz'altro, interveniamo sull'organismo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra, chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? Tale è la nostra cultura. E allora il silenzio diventa tumultuoso, e la depressione prende a parlare, non con le nostre parole banalmente euforiche o inutilmente consolatorie, ma con quelle rotture simili alla lacerazione delle ferite quando il corpo le conosce come ferite mortali.

È a questo punto che lo spettro della morte si annuncia e inizia a parlare con il tono tranquillo di chi sa di tenere nelle proprie mani tutte le sorti.
Fine del baccano indiavolato in cui quotidianamente tentiamo di esprimere la nostra gioia. Un baccano che è la parodia del grido d'angoscia che, se fosse ascoltato, ci farebbe riconoscere un uomo nel deserto delle cose.
Un deserto che si espande da quel presente muto, in cui il depresso disabita per invivibilità ogni evento, al passato che ha desertificato glorie, trionfi e amori che non si sono radicati, progetti estinti al loro sorgere, ricordi che non hanno nulla a cui riaccordarsi, in quella solitudine frammentata dove l'identico, nella sua immobilità senza espressione, coglie quell'altra faccia della verità che è l'insignificanza dell'esistere.

Non si può parlare neppure di disperazione, perché l'anima del depresso non è più solcata dai residui della speranza. E le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti, più o meno sincere, le parole che non si rassegnano, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono guarire languono tutte attorno al depresso, come rumore insensato. Il rumore che gli altri, quelli che un tempo applaudivano, si scambiano ogni giorno per far tacere a più riprese quella verità che il depresso, nel suo silenzio, dice in tutta la sua potenza.

Bisogna avere il coraggio di vivere fino in fondo anche l'insignificanza dell'esistenza per essere all'altezza di un dialogo con il depresso. E solo muovendosi intorno a questa verità, che è poi la verità che tutti gli uomini si affannano a non voler sentire, può aprirsi una comunicazione.
Comunicazione rischiosa, non perché ci può trascinare nella depressione, ma perché può tradire la nostra insincerità. Il depresso infatti è sensibile al volto che smentisce la parola, e il suo silenzio smaschera la finzione e l'inconsistenza. Per questo i volti dei depressi sono rigidi e pietrificati.
Abitando la verità dell'esistenza con tutto il suo dolore, essi non stanno al doppio gioco della parola che danza disinvolta nell'insensatezza della vita, o che, impegnata, indica una formazione di senso laggiù ai confini del deserto.
Il depresso sa che il confine, come l'orizzonte, è sempre al di là di ciò che di volta in volta appare come confine e orizzonte, sa che non c'è felicità nella sequenza dei giorni, che il sole che muore è lo stesso che risorge, e che nel cerchio perfetto che il ritorno disegna naufraga il progetto che per un giorno s'era levato per reperire un senso nella vita.

Si può spezzare questo cerchio tragico e perfetto? Sì, se siamo capaci di ritrovare l'essenza dell'uomo che Hölderlin indica là dove dice: "Noi siamo un colloquio" . Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche. Ascoltare non è prestare l'orecchio, è farsi condurre dalla parola dell'altro là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c'è il silenzio dell'altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio.
Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel volto di pietra del depresso, tace per non confondersi con tutte le altre parole.
Parole perdute per il senso profondo della nostra esistenza, che ogni giorno tentiamo di disabitare dietro le maschere in cui è dipinta ovvietà, incrostazioni di felicità, recitate euforie.

Esaltarci per i trionfi o piangere per la morte sono gesti insufficienti al limite dell'ovvio, così come non basta batter le mani tanto per una vittoria quanto per il passaggio di una bara. La depressione chiede di più: non entusiasmi, non pianti, non applausi. La depressione chiede ascolto.
Quell'ascolto che tutti abbiamo negato a Marco Pantani e che, a partire dalla sua morte, potremmo incominciare a inaugurare come primo segno di una cultura meno plaudente perché più riflessiva, più attenta alla solitudine degli uomini.
 
 

Pantani Marco: «Pantani nel deserto dei depressi», Umberto Galimberti, Repubblica, 10 febbraio 2004

 

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