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Mina
Ma un gioco che obbligasse
alla tolleranza, al rispetto, alla comprensione non lo vogliono proprio
inventare? Un giochino semplice, con poche regole, tra cui quella
fondamentale, che preveda che se il nemico comprende e rispetta
l'avversario, alla fine di una lunga “partita”, vince tutto. Vince il
lavoro, la casa, la scuola per i figli, e, soprattutto, la pace. La pace
universale che è tra le cose che concorrono alla nostra felicità, come
diceva Dante.
Oggi per pudore, quasi per vergogna, direi, non si può parlare di felicità.
Nemmeno nelle canzonette. E al posto della pace, becchiamoci anche la
notizia che a Portland, nell'Oregon, si sta svolgendo la “Conferenza dei
programmatori di videogiochi cristiani”. Tre giorni di incontri e di
dibattiti, per “attrezzare i programmatori a glorificare Dio”, magari con un
videogame in cui il giocatore ha il compito di salvare l'umanità, mentre
infuria la battaglia tra le angeliche Armate dei Puritani e le truppe del
diavolo, oppure deve salvare i cristiani dell'antica Roma dai leoni e
convertire i carcerieri, o, sotto le sembianze di un paladino del '400, deve
attivarsi per salvare la Bibbia di Gutenberg rubata dal demonio.
Non basta più la partitella all'oratorio, di celentaniana memoire, con tanto
sole ... tanti anni fa, o, per i più votati al ragionamento sedentario, una
salutare sfida a scacchi. Anche i giochi si adeguano allo Zeitgeist, che
vede librerie invase da bassa letturatura che sguazza in improbabili
racconti di croci da recuperare, di santi sepolcri da salvare, di marrani da
infilzare.
Convertire o accettare e comprendere. Un buon dilemma, abbastanza antico,
abbastanza moderno, mortalmente attuale. Missionari, crociati, detentori
della verità sono sguinzagliati sul pianeta a cercare di conficcare idee in
cervelli e cuori tutti diversi l'uno dall'altro. E, rigorosamente distinti
da divise e bandiere, affollano territori religiosi o culturali o
semplicemente biologici, incapaci di amalgamarsi perché nessuno aveva
pensato dovessero farlo e nemmeno dovessero provare a farlo. E, per favore,
che sia chiaro. Non sto parlando di terroristi e di terrore, privi, per
definizione, di qualsivoglia umano significato. Chiuso l'argomento.
L'esperanto, nel suo significato più alto, è fallito, ma ci si può
riprovare.
L'obbligo più razionale non mi sembra quello della propaganda di sé, quanto
piuttosto quello della conoscenza dell'altro, chiunque e comunque sia.
Nel frattempo, che Dio, Allah, Jahwè, Visnù, Brahma, Manitù, o chiunque
abiti il cielo, ci assista.
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