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Mina
“SOGNO una squadra di orfani». Questo era il paradossale desiderio di un
allenatore di una squadrina di bambini. I genitori ne facevano di tutti i
colori: dall'urlare parolacce all'inveire contro i padri dei ragazzi della
squadrina avversaria. Per non parlare del povero arbitro che non sapeva se
ridere o piangere, dato che le frasi urlate contro di lui erano pari pari
quelle dei grandi incontri fra squadre di A. Il maleficio della violenza,
verbale e fisica, si è insinuato anche nel calcio cosiddetto minore, al
punto che oggi e domani, in tutta l'Emilia Romagna, le partite inizieranno
con cinque minuti di ritardo. Per stigmatizzare recenti episodi di
aggressione ad arbitri e persino risse tra genitori di calciatori che,
invece di guardare la partita, riversavano dagli spalti il peggio di se
stessi. Nessuna meraviglia. Bellicosi, fanatici, aggressivi, feroci,
violenti si nasce. È così. La bestialità è un fatto costitutivo del nostro
midollo, della nostra spina dorsale. Per lo meno di una buona fetta di
genere, per così dire, umano. Stiamo in piedi a furia di coltellate e di
raffiche di mitra. Sì, abbiamo inventato mille forme di convenzioni sociali
e di regole più o meno perbeniste e buoniste. Ma questo grumo, questa bomba
sanguinaria che molti hanno piantata dentro il petto riesce sempre ad
emergere. Soprattutto quando, per affermare il nostro istinto, non esitiamo
a spappolare la dignità dell'altro. E' la costante, quotidiana vittoria
della logica dell'«homo homini lupus». E a tentare di bilanciare la partita
non bastano quei pochi stremati esempi di solidarietà, di amore
disinteressato, di carità cristiana, nei quali ci affrettiamo a
riconoscerci. Così come non garantisce esiti sicuri e positivi il guardare
il viso di nostro figlio nella culla, il nutrirlo di parole chiare (sarebbe
forse meglio insegnargli da subito che l'importante è non partecipare),
l'opporre velleitarie barriere d'amore alla pervicace risorgenza dei
multiformi cazzotti alla dignità umana. È un po' come il giocatore di carte,
che alla fine, consegnando i soldi della perdita al vincitore, gli dice:
«Tutti in medicine». Quante volte l'ho sentita questa deliziosissima frase.
E sotto il finto, tirato sorrisino di uno che vuol far credere che sta
scherzando, si vedeva chiaramente che era proprio quello che avrebbe
fortemente desiderato. Questo siamo noi. Siamo sempre i pronipoti di chi ha
ucciso il fratello. Siamo Caino. Infettati dalla nostra corrosiva, mortale,
violenta animalità e massacrati da quel cazzotto di indegnità che amplifica
tutta l'impotenza ad essere un «essere umano».
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