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Mina
Due amori. Che cerco di
conoscere meglio, ancora adesso che i verbi sono prevalentemente
all'imperfetto. Adesso che alcuni vocaboli cominciano ad essere sconosciuti:
"Come hai detto? Che cosa vuol dire?". Il grande amore: l'italiano e il
piccolo amore: il dialetto. Che fanno parte di me come i miei capelli, come
il mio piloro. Che mi tengo stretta. Che mi scaldano il cuore e i pensieri.
L'italiano è la perfezione complessa come la psicanalisi, scrigno di tesori
come le eccezioni e le figure retoriche. Il dialetto è la verità, la storia
di ognuno, innegabile culla, magazzino di individui. L'italiano è la
sciolina indovinata per passare la vita sullo stivale patrio. Il dialetto è
la coscienza terrosa di qualsiasi pezzo di mondo e solo di quello. Con
l'italiano entri in rapporto formale con gli altri, attraverso la lingua
della mente. Con il dialetto sbugiardi gli imbroglioni e riconosci i
sinceri.
Probabilmente non basterà l'infarinatura impartita da chissà quali docenti e
auspicata dalla Moratti nei nuovi obiettivi d'apprendimento dei licei
classici. Ci vorrà un'università ampia per insegnarlo ed impararlo.
Accozzaglie di vocali definite da accenti e da segni diacritici, come una
battaglia di soldatini. Fremiti consonantici divisi tra il vento e il
porcile. Avrei preferito che la trasmissione della lingua fosse un fenomeno
biologico perché non si perdesse nessuna scheggia di patrimonio. Ma
mutazioni fonatorie e esigenze coagulative hanno semplificato e svilito le
preziose disuguaglianze. Recentemente De Crescenzo raccontava di una vecchia
foto di suo padre, soldato nella Grande Guerra, con la scritta "interprete"
sul braccio. Interprete fra un tenente veneto e un sergente siciliano. Poi
il Ventennio ha sguinzagliato per l'Italia maestrine dalla penna rossa che
segnavano ogni parola dal vago sapore dialettale.
L'italiano, che non è nato e non si è affermato come lingua orale, non
l'abbiamo appreso per mezzo della musicalità, ma attraverso i significati.
Una precisa parola per indicare una determinata cosa. La mente eseguiva, ma
dentro continuavamo a parlare in dialetto. Con tutta la ricchezza
dell'emozionalità, del movimento, della passione per il particolare e per i
punti esclamativi.
Se la lingua è appartenenza, ben venga questo estremo tentativo di
risurrezione del dialetto. Come antidoto al paciugo linguistico che non è
più italiano e non è ancora inglese, come nutrimento per le anime
refrattarie all'inebetimento dell'orribile linguaggio medio televisivo,
infarcito di luoghi comuni, che soffoca e stramazza quel corpo inerte che è
l'Italia.
E perché, per non rinunciare alle altezze del migliore italiano, superbo,
amaro e zuccherino, nobile e pugnace, non accostare finalmente i liceali al
genio di quel Gadda che mescolava i linguaggi, per dire la realtà
esattamente come deve essere? Ne guadagnerebbero il cuore e la mente.
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