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Mina
E dopo la circolare del preside di Avezzano, da tutta la penisola si alza un
appello alla resistenza: “Ombelichi d’Italia, unitevi”. Di rimando, pure le
natiche, non accettando imposizioni di sorta, preparano cortei e sit-in in
cui proclameranno a gran voce che “il sedere scoperto jamás será vencido”.
Dal piattume dei cervelli, come se fossero stati spianati dai bulldozer del
nulla, non si eleva nient’altro che l’ovvia rivendicazione a “vestirci come
ci pare e piace”. Nessun’altra battaglia ideale sembra varcare le soglie
delle aule scolastiche. Le telecamere che lambiscono le scuole non ci
rimandano altre immagini, se non quelle di branchi di adolescenti che
ostentano jeans strappati con mutanda griffata a mo’ di accessorio,
magliette malmesse, piercing in bella vista su ombelichi al vento o
incastrati nelle narici, creste ingellate a coprire cervelli sempre più
omologati. E mentre rivendicano la libertà di vestirsi a proprio piacimento,
ricascano inconsapevoli in un rito che ha il sapore di un’iniziazione
barbarica o di un’integrazione al consumismo più acritico. È l’epilogo
sconclusionato e tragico di chi, pur senza un regime dittatoriale che li
schiacci, non sa cedere al fascino della divisa che irregimenta nel gruppo.
E i padri e le madri? Anche loro, forse, risucchiati dalla civiltà delle
vacue ossessioni, vittime di una peste che inibisce la capacità di dire “sì
e no” in modo chiaro? Il povero preside viene messo sulla graticola
destinata agli educatori troppo invasivi, e intanto, a furia di “tutto è
dovuto, tutto è concesso”, tiriamo su generazioni di maschere, di occhi
spenti, di orecchie sorde, caricature omologate ad una moda che li vuole
solo carne da macello per un rito che, in fondo, è vuota rappresentazione di
sé.
A dir la verità, poco mi appassiona il dilemma “jeans abbassati sì o no”. Mi
preme di più che un ragazzo sappia ancora guardarsi dentro, prendere a cuore
la propria essenza, piuttosto che mostrarsi troppo intento alla buona
riuscita della propria rappresentazione nel gruppo dei suoi simili. E mi
illudo ancora di pensare ad una scuola dove ci si nutra di domande sulla
realtà e di risposte che innalzino il livello della conoscenza. Dove sempre
meno accada di sentire quelle sublimi, addirittura geniali castronerie che
spesso mi riferisce un mio amico insegnante. Il quale, per esempio,
spiegando che Dante in Paradiso viene accompagnato da San Bernardo, si sente
chiedere da uno studente “Ma prof, un cane?”. O in un’interrogazione si
sente dire da un altro ragazzo che Renzo, di lavoro, faceva il tramaglino e
Lucia la mondella e che uno dei compagni di Garibaldi nella spedizione dei
Mille si chiamava Nino Biperio, non comprendendo che la ics di Bixio non
equivale ad un’abbreviazione da sms.
Oltre ai jeans da tirar su, c’è ben di più da rialzare.
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