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Mina
Oggi non riesco a giudicare se speranza e paura debbano o possano convivere.
Di fatto, da tre anni, siamo tutti tenagliati da una morsa che ha due facce,
opposte ma connesse: la paura che stringe lo stomaco e l'esigenza di un
terreno diverso, più limpido e solido, su cui costringere una vita di pace.
Mi affido ad una citazione senza ottimismo né pessimismo. Diceva Spinoza:
"La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura". Nessuno
oggi può dire "a me non succederà". Ogni disastro, pubblico o privato che
sia, è possibile. Terrore e orrore. Disumana incoscienza di uno o più. E
questo significa, configura e diffonde la paura.
Ma poi mi raggiunge un'immagine. Una donna che innaffia i suoi pochi fiori.
A Baghdad. L'ho vista l'altro giorno in televisione. Una lezione altissima,
un significato profondo. Continuare, andare avanti. Comunque. In mezzo allo
sfacelo fisico e morale che ti indurrebbe a mollare. Perché lei, e non
saprei dire quanti altri, spera nello sboccio reale e metaforico di quei
fiori per gli uomini di buona volontà al servizio di qualsiasi Dio.
Alcuni imbecilli si ostinano nella certezza di saper decifrare e distinguere
buoni e cattivi. Non si apprezza nell'aria nessuna corretta e utile
ammissione di ignoranza e di incompetenza. Sarebbe così facile, invece,
ricondurre il giudizio a semplici comandamenti. Quelli trasversali a ogni
legislazione e a ogni religione. Quelli evidenti e solari, secondo i quali
l'uccisione di un francese è odiosa come quella di un italiano, come quella
di un iracheno, come quella di un americano. Basta con i distinguo
finto-civili o finto-colti. Una scuola russa, un treno spagnolo, una
metropolitana giapponese, un autobus israeliano, una villetta irachena, un
grattacielo americano, devono contenere quello per cui sono stati costruiti:
vita. Vita, e non morte.
In quel pomeriggio di settembre di tre anni fa, una stilettata ha penetrato
la nostra coscienza; in quell'attimo fu chiaro a tutti che qualcosa nel
nostro modo di vivere non poteva più essere come prima. Dall'abisso che si
era aperto sotto i nostri piedi veniva su il mostro della paura. Che poi
abbiamo cercato di esorcizzare o di ricacciare indietro. Ma se dalla
voragine del terrore sale l'urlo che esalta la morte e nega il valore di
ogni singola e individuale esistenza, lo sguardo del cuore esige di guardare
altrove. Là dove la vita resiste.
La paura vince se gli eserciti del terrore incatenano i nostri occhi a
fissare il sangue di cui sono assetati. Io volgo lo sguardo da un'altra
parte. Ad esempio al viso ancora sconvolto di David Cepikov, di 11 anni, che
ci racconta di come, nell'inferno di Beslan, sia stato salvato dal
sacrificio di una maestra che gli ha fatto scudo col suo corpo. Guardo
altrove. Là dove l'amore per la vita è più forte della potenza della morte.
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