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di Mina
Diego Armando Maradona sta meglio. È addirittura uscito dall’ospedale. Sono
felice. E mi dispiace soltanto della solita impudicizia di chi non lascia
vivere o morire in pace qualcuno.
I parlatori dei fatti degli altri avevano già colto al balzo questa ultima
occasione di difficoltà di un altro campione per sciorinare diarroicamente
un po’ di morale da “Bar Sport”, un po’ di competenza da bigino su droghe
leggere e pesanti, un po’ di interpretazione volgare della fisiopatologia
respiratoria. E così Maradona intubato, estubato e reintubato diventava
attaccabile sui suoi perché e, nello stesso tempo, sminuito a omuncolo cui
dedicare una ramanzina senza troppa compassione. Come siete stati buoni!
Come siete simpatici quando vi spartite avidamente la putrescina che sembra
manna piovuta dal cielo per rinfocolare la vostra logica da tritacarne che
riduce tutto al solito copione per il teatrino mediatico. Morti o moribondi
o a rischio di morire, indifferentemente invischiati in guerre o paci o
armistizî, indifferentemente precipitati o esplosi o bruciati,
indifferentemente suicidi o involontarî. Basta che siano visibili ed
esponibili.
Al formidabile, ineguagliabile signor Maradona non piacerà. Non aveva
bisogno di alcun commento questo suo pezzo di vita. Maradona è stato il più
grande nel fare ciò che voleva fare e ciò che tutti volevano che facesse.
Essere campioni significa brillare per sempre e comunque, detenere per
sempre il ruolo di astro nell’empireo di competenza. La faccia non visibile
di un corpo celeste può essere e deve rimanere più brutta o più bella
dell’altra. Esplorarla non deve significare snaturarla né deturparla né
cambiarla. Non ne abbiamo il diritto. È la faccia non esposta, non è fatta
per noi. È un privato obbrobrio o un privato tesoro.
Avrei voluto stare con il popolo di Maradona che, fuori dall’ospedale,
voleva soltanto fargli arrivare l’amore e la comprensione. In avenida
Puyrredon a Buenos Aires, con la gente che innalzava immaginette e
improvvisava preghiere. Loro sono la verità. Con quelli degli striscioni,
che della nostalgia fanno un motto. Con quelli che piangono e rimpiangono
più che possono e che insieme si addolorano nella paura della privazione di
un idolo amato. Questa gente sa bene che un talento così puro, espresso
semplicemente con un piede sinistro, non può convivere con il carattere e
con i comportamenti di un ufficiale giudiziario.
Era già tutto scritto, fin dai primi calci infantili tra le fila delle
Cebollitas dell’Argentinos Juniors. Non dimentico il primissimo filmato nel
quale aveva quella bella faccina, premonitrice di quasi tutto. Su un
campetto spelacchiato palleggiava e intanto, forse, capiva già di essere
così bravo da doversi rassegnare al destino di un numero uno. Diego, mi
corazón está contigo.
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