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di Mina
Con il fiato sospeso, li abbiamo sempre guardati come il nostro lato
migliore, ingenuo, intatto. Come un prolungamento di noi, ma con in più uno
sguardo spalancato, una capacità intatta di affidamento, uno stupore sincero
che scopre il mondo nel suo aspetto più affascinante. Li abbiamo coperti con
i guantini e le cuffiette fatte all’uncinetto. Li abbiamo spaventati con la
minaccia del carbone o soddisfatti col regalo più inaspettato. Li abbiamo
accompagnati al parco dove cominciavano a scegliersi i primi amichetti di
gioco. E poi al supermercato a scrutare col naso all’insù l’astuccio più
bello e lo zaino più colorato. Li abbiamo condotti fino all’ultimo gradino
della scuola, dove un’altra mano, più competente e colta di noi, li avrebbe
aperti ad altri orizzonti di conoscenza.
Poi, improvvisamente, li scopriamo già grandi, col tono serissimo di quando
vogliono dimostrare di essere cresciuti o col diario segreto che raccoglie
le confidenze che non ci vogliono più raccontare.
E guardando più in là, in un mondo che non ci corrisponde più, li vediamo
sfruttati, prostituiti, violati, cinti di esplosivo e pronti ad immolarsi
per cause di morte. Neppure l’illusione di vivere nel “bel Paese”, dove
anche le mamme son tutte belle ed anche un po’ chiocce, sembra bastare più.
Soprattutto quando si viene a sapere che in Italia i bambini che lavorano
sono quasi 400 mila. La solita guerra di cifre si scatena anche sul lavoro
minorile. La Cgil spara la cifra alta, il ministro Maroni la dimezza. Sono
conteggiati solo i bambini italiani o anche i figli di immigrati? Solo
quelli che lavorano alle dipendenze di terzi o anche quelli che
saltuariamente danno una mano nell’azienda artigianale dei genitori? Come al
solito non lo sapremo mai.
Fatto sta che, mentre migliaia e migliaia di bambini non giocano più e non
studiano più per una paga che va dai 200 ai 500 euro al mese, ci si
interroga sulle cause e si individuano delle strategie. Colpa delle famiglie
sempre più povere o di modelli culturali sbagliati che, come nel Nord-Est,
prevedono la piena occupazione e la religione del lavoro a tutti i costi?
Più controlli sulle aziende o più aiuti alle famiglie?
Resta centrale la responsabilità educativa della famiglia, ma è altrettanto
fondamentale il ruolo della scuola. Negli anni scorsi abbiamo varato leggi
per innalzare l’obbligo scolastico, ma abbiamo costruito percorsi rigidi,
immaginando che tutti i ragazzi dovessero essere diligenti liceali, dediti
solo alla cultura alta. Così li abbiamo illusi, annoiati, disamorati, in
aule scolastiche più simili a prigioni che a luoghi di scoperta. Occorre
tornare, al di là delle affermazioni di principio, alla centralità della
persona in crescita, in una scuola dove ciascuno abbia il diritto di fare il
suo percorso, secondo le proprie attitudini e aspirazioni. Tutto sommato,
non è poco.
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