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di Mina
E io dico che non ci riusciranno, purtroppo. In una vecchia fabbrica,
concessa dal Comune di Torino al Gruppo Abele, l’associazione Acmos sta
organizzando uno stage di due settimane per cercare di insegnare ai giovani
come liberarsi dalla mania della griffe. Con uno stile di vita all’insegna
della più rigorosa parsimonia, si proiettano film e spot, si fanno
autoanalisi di gruppo.
Non so se ci riusciranno. L’obiettivo mi pare evanescente. Il fenomeno da
debellare è sfuggente perché semanticamente e concettualmente impreciso.
L’oggetto firmato, con firma visibile, è stato ideato per distinguere, ma
attualmente esprime una sublime forma di omologazione. Il “dernier cri” si
consuma precipitosamente e, nell’arco di due mesi, si sprofonda
dall’eccellenza al consueto.
La mania della griffe assomiglia a tante altre stranezze patologiche che
infestano l’umanità dell’acritico consumismo. Vi partecipano, con uguale
colpa o indifferenza, uomini e donne di tutte le età. Nei pezzi ricchi della
Terra qualcuno o qualcosa ci confonde. Specialmente quelli con poca
inventiva e, sorprendentemente, gli adolescenti soffrono dei nuovi malanni
della civiltà dell’ossessione.
La sconclusionatezza
risiede nella mancanza di voglia di libertà più che nella mancanza di
possibilità di libertà.
Così, inaspettatamente, anche senza dittatore pochi riescono a non cedere al
fascino della divisa e del distintivo. Epilogo tragico, già profetizzato
trent’anni fa dal solito Pasolini: “Nessun centralismo fascista è riuscito a
fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo
proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera
morta. Oggi l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e
incondizionata. La ‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo
potere è la peggiore delle repressioni della storia umana”.
Senza sapere riconoscere la porta, l’autogol è inevitabile. Il risultato è
spaventoso. Pashmine o kefiah, eskimi o loden, rosso Valentino o blue jeans,
Armani o Versace, un tatuaggio o un piercing, teste pelate o treccine e
altri distintivi, finiscono per essere gli elementi di identificazione e di
riconoscibilità, visto che le parole e le idee si sputtanano nei
“geroglifici” della comunicazione cellulare.
Ognuno degli irregimentati griffevictims è convinto di scegliere e invece
soccombe, non si cura della propria essenza perché troppo intento alla buona
riuscita della propria rappresentazione. Ma almeno entrerà in un quadro
dove, con la faccia del Che, con un seno rifatto da un grande chirurgo, con
un paio di scarpe Nike o circa, con una borsa con firma vera o tarocca,
troverà i suoi simili, identici o somiglianti e marcerà con loro.
Aveva sciaguratamente ragione Oscar Wilde: “Non c’è alternativa: o si è
un’opera d’arte o si indossa un’opera d’arte”.
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