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di Mina
“I couldn’t care less”. Ve lo dico nella vostra lingua. Sarò anche l’unica
al mondo, ma a me del robottino su Marte, di “c’è l’acqua o non c’è
l’acqua?”, di “guardate, è proprio rosso il Pianeta Rosso”, di, “o signùr,
il robottino non risponde più”, di “that’s one small step for a man, one
giant leap for mankind”, insomma di tutta quella roba lì non potrebbe
importarmi di meno. E, udite udite, non mi sento neanche antiscientifica o
contraria alla conoscenza.
Vado giù piatta, anche se potrà sembrare una posizione demagogica o di
comodo: con tutto quello che c’è da fare sulla Terra, è sensato impegnare
centinaia di miliardi di dollari per scorrazzare su Marte? Tanto per essere
concreti, la Nasa sostiene che per arrivare sul Pianeta Rosso entro il 2030
occorrono 750 miliardi di dollari.
E una volta messo piede su quelle lande massacrate dal nulla e dai meno 55
gradi di temperatura media, cosa si fa? Qualche settimana per rimettersi in
sesto e sgranchire le gambe dopo sette o otto mesi di viaggio in assenza di
gravità. Uno spuntino ogni tanto a base di verdure liofilizzate e carne
disidratata. E poi alla ricerca di un angolino pittoresco, magari con
qualche cratere in bella vista, su sfondo desolatamente rossastro, da
immortalare in una foto da inviare alla madre Terra, a mo’ di
cartolina-ricordo. Altre valangate di milardi per costruire una base
spaziale. Niente di trascendentale, per carità. Ci si potrebbe accontentare
di una brandina per tentare un pisolino e di un comodino per appoggiare la
tuta, mentre il resto della truppa va a cercare un po’ di ghiaccio della
calotta polare per una doccia, rigorosamente necessaria dopo 56 milioni di
kilometri di viaggio.
Con tutto quello che c’è da fare sulla Terra ...
I fantascientisti, ebbri di razionalismo futurista, mi dicono che di fronte
all’esplosione demografica, soprattutto nel Terzo Mondo, non c’è altra
scelta che questa. La colonizzazione del giardino di casa, del pianeta più
vicino e più simile alla Terra. In fondo, l’hanno sempre fatto, gli uomini.
I Greci nel Sud Italia, i Fenici a Cartagine, gli Inglesi in America. Ma
temo, per fortuna, che non riuscirò, verso il 2035, a vedere la scena degli
americani, colti da neo-grandeur, che rastrellano uomini, donne e bambini
dei villaggi ugandesi per portarli in massa a Cape Canaveral per il
definitivo espatrio su Marte. Gente che non ha mai visto nulla oltre la
strada che porta al villaggio più vicino, costretta a imbarcarsi oltre i
confini del mondo, verso il pianeta coloniale. In fondo, rispetto a una vita
di stenti, meglio incapsularli sotto volte di plexiglas marziano a fare la
vita dei topi, no? Ma certo, si applicheranno a bonificare i terreni
rossorocciosi, nella speranza di ricavare, dopo qualche anno, una foglia di
manioca o una bieca pannocchia.
Con tutto quello che c’è da fare sulla Terra ...
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