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di Mina
Non ci sono ingredienti. Non è una formula matematica. Se la cerchi non la
trovi. Succede quando guardi vicinissimo o lontano, oltre le nuvole. Quando
diventa una necessità. Quando la fatica che fai per comporre non ha bisogno
di gratitudine. Quando sbricioli la tua anima in un’aria pura e perfetta.
Quando ciò che è sufficiente è ottimo. Quando è magia.
E succede raramente, purtroppo. È successo con Monteverdi, con Palestrina,
con Bach, con le laude medievali. È successo quando alla voce e al suono che
si svincolano dall’anima è parso quasi di sentirsi sfiorare dalla mano di
Dio.
C’è chi vigila, o per lo meno cerca di farlo, sull’adeguatezza della musica
liturgica. Il Papa ne scrive e chiede che la musica sacra sia vera arte,
“nell’intento di far sì che la musica liturgica risponda sempre più alla sua
specifica funzione”. Ribadisce che il canto gregoriano e la polifonia
restano centrali per le celebrazioni della Chiesa, ma se qualcuno vuole
aprirsi a nuovi linguaggi musicali deve “far sì che le nuove composizioni
siano pervase dallo stesso spirito che suscitò e via via modellò quel
canto”.
Ma la musica non nasce da un calcolo matematico e tanto meno da una
disposizione autorevole. Non si dovrebbe rinnovare ciò che già risplende per
la sua perfezione. Michelangelo e Caravaggio restano lì come modelli
inimitabili, anche se il Papa invita a cercare nuovi linguaggi artistici. E
a maggior ragione ciò accade nel campo della musica. Soprattutto se il
livello medio del canto liturgico è quello che si sente durante le
celebrazioni trasmesse in tv, dove prevale l’improvvisazione vocale
sostenuta dallo strimpellio di due chitarrine, solitamente mal suonate.
Le porte della Chiesa devono rimanere chiuse, perché lì dentro, all’interno
delle cattedrali, c’è un tesoro di cui non ci si può sbarazzare e che
sarebbe folle rinnegare. C’è in gioco la possibilità per l’uomo di oggi di
poter attingere ancora alla bellezza senza tempo, senza la quale mancherebbe
il criterio di paragone. Come diceva Von Balthasar: “In un mondo senza
bellezza (anche se gli uomini hanno continuamente questa parola sulle
labbra, equivocandone il senso), in un mondo che non ne è forse privo, ma
che non è più in grado di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la
sua forza di attrazione e la sua evidenza; e l’uomo resta perplesso di
fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male”.
Vorrei che non cambiasse nulla, dietro quelle porte. Vorrei che il mistero
restasse intatto, come quando si va a sentire Puccini o Wagner che, anche al
centesimo ascolto, ti commuovono, ti insegnano, ti migliorano.
“Oh generazione sfortunata, venisti al mondo, che è grande eppure così
semplice, e vi trovasti chi rideva della tradizione, e tu prendesti alla
lettera tale ironia fortemente ribalda … Non conosceste o non riconosceste i
tabernacoli degli antenati ... Oh generazione sfortunata, capirai di aver
servito il mondo: era esso che voleva far piazza pulita del passato ... Vi
siete ribellati proprio come esso voleva … Piangerai, ma di lacrime senza
vita, perché forse non saprai neanche riandare a ciò che, non avendo avuto,
non hai neanche perduto” (P.P.P.).
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