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di Mina
Le Twin Towers, pur annientate
dalla follia umana, trovano sempre più spesso nuovi epigoni. Emulandole in
altezze stratosferiche, altre torri svettano, altre sono in fase di
costruzione, altre se ne progettano.
Nel cuore di Taipei, la capitale di Taiwan, è stato completato il
rivestimento del “Taipei 101”, il grattacielo di 508 metri che si colloca al
primo posto tra gli edifici più alti del mondo, strappando il primato alle
Petronas Towers di Kuala Lumpur. Ma già si preannuncia la costruzione di
un’altra follia edilizia, a Shanghai. Potremo anche gloriarci del fatto che
il rivestimento in alluminio e vetro del Taipei 101 è stato realizzato da
un’impresa italiana. Gloriamoci, se di gloria si può parlare. Oppure
passiamo oltre.
Un altro superbo atto di ostentazione di potere. Potere economico,
innanzitutto, perché questi edifici accolgono prevalentemente uffici
finanziari. Ed è per questo che sono le nazioni asiatiche, che vivono un
periodo di rapido sviluppo, a voler simboleggiare, nell’altezza delle loro
costruzioni, la raggiunta coscienza della loro crescita economica.
La sfida al cielo continua, sostenuta dalla protervia di un uomo che non
accetta la bassezza naturale, quella che lo colloca ad un’infima distanza
dalla terra. Cerchiamo l’altezza, lo slancio verso il cielo. Ma solo nella
forma di un grattacielo che ci illude di essere più vicini all’infinito. La
realtà, purtroppo, è ben altra. E pur nella ricerca di un livello sempre più
alto in cui collocare la nostra presunzione di superiorità, restiamo
costantemente impastati di terra, incrostati di polvere, sporchi di fango.
La saga della torre di Babele continua, nelle sue moderne varianti
tecnologiche. Raggiungere il cielo, sfidarlo, lanciare un pugno verso
l’alto, per dire chi siamo. O meglio ciò che vorremmo essere. Uomini che si
elevano, in un atto di tracotante alterigia. Esseri minuscoli che si
illudono con l’ostentazione della loro vanagloria di raggiungere un’altezza
che non hanno.
Esiste, invece, una semplicissima legge di natura. Un albero va tanto più in
alto e porta frutti, quanto più profonde sono le sue radici. Purtroppo,
continuiamo a puntare il naso verso l’alto, illudendoci di essere migliori o
per lo meno più visibili, e in questo atto di superbia dimentichiamo le
radici, le fondamenta.
Questi giorni, in cui il cuore è sconquassato dalla pochezza dell’uomo e
dalla banalità del male, documentano come la perdita della nostra radice più
profonda sia la premessa che porta facilmente al crollo. L’arroganza, che è
l’altra faccia dell’ambizione e della presunzione di superiorità, si
manifesta oggi come violenza cieca. Ma è l’amore alla terra, al fondamento
di noi stessi, a quella radice ultima che i nostri padri hanno messo dentro
di noi, che ci fa stare in piedi. Senza che nulla ci faccia vacillare.
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