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di Mina
In una radura inaspettata nella pineta parallela al mare, un po’ di
seggiolini di ferro si riempivano di bambini che, a bocca aperta,
aspettavano l’aprirsi del veloce sipario del Teatrino dei Burattini.
Comparivano Masticabrodo, Fagiolino e Mangiafuoco che, siccome era cattivo,
finiva la sua storia, qualsiasi sua storia, sommerso dalle randellate dei
buoni. I bambini alternavano sorprese, paure, risate e battimani. Poi tutto
era finito. La radura restava in silenzio e aspettava l’indomani, tra i
pini, per le repliche.
Adesso che siamo un po’ più grandi e, sfortunatamente, non teniamo più la
bocca aperta, continuano a fare il teatrino. Il sipario non c’è. C’è il
telecomando. E compaiono, con cravatte gialle esorbitanti, con abbronzature
da fighetti, con corrucci finto-intellettuali, Masticabrodo, Fagiolino e
Mangiafuoco a dipanare sintassi demenziali per dimostrare che cosa sia
giusto, oggi, nel mondo del calcio. Le coperture televisive, gli stipendi
dei giocatori, le fideiussioni, gli illeciti sportivi, la Lega, la Bega, la
Sega. La sfiducia.
Sperando di interessarci o di farci arrabbiare, la tirano un po’ in lungo.
Non hanno il coraggio di comunicarci che, non sapendo più da dove spremere
soldi per mantenere il giocattolone e fare arricchire tutti i partecipanti,
stanno per mettere in atto stratagemmi già noti che devono solo comminarci
un po’ più make-uppati da soluzioni intelligenti. I personaggi non riescono
neppure più ad identificare il vero Mangiafuoco, sicuramente così cattivo,
sul quale sfogare randellate. Che menata. È un teatrino che non finisce.
Allora cambio canale.
Cambio canale e mi ritrovo a Parigi, nello stadio dove ci si sfida per la
vittoria nei Mondiali di atletica. Altra aria. Vedo la faccia di Jonathan
Edwards, uno che, pur coi capelli bianchi, sa trasformare un salto in una
poesia. Lo vedo mentre piange dopo la sua ultima gara prima del definitivo
ritiro e mi viene voglia di abbracciarlo. Vedo la faccia dell’etiope
Gebrselassie che riesce a sorridere anche da secondo, dopo aver aiutato il
suo più giovane connazionale a vincere i 10.000. Vedo una ragazza afghana
che, in tuta, corre i 100 metri in 18 secondi e più, una martellista
egiziana che lancia con lo chador e un nero americano con degli splendidi
occhi verdi che fa il diavolo a quattro contro i giudici. A Parigi, dove
oggi vedremo la maratona e dove si è realizzata la favola di un ragazzo del
Sud che è campione del mondo di salto con l’asta e ancora non ci crede. Lì
abbiamo visto gente che lavora pesantemente sul proprio limite, facce
robuste di atleti che solitamente non riempiono le copertine, ma che vivono
lo sport come una continua ricerca di miglioramento. Questa è l’atletica.
Questa è l’atletica, dove chi sbaglia paga. E pesantemente, con squalifiche
inderogabili che durano anni. Per nulla paragonabili a quelle ridicole del
calcio, dove si sollevano polveroni (a che punto siamo, dottor Guariniello,
con le mille inchieste da lei aperte?) e poi tutto finisce a tarallucci e
vino.
Questa è l’atletica. Che amo infinitamente, quella che qualche tempo fa fece
dire a Daniele, un mio amico per la vita: “Vorrei battere il record mondiale
dei cento metri e poi morire”.
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