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di Mina
La prima reazione è stata di repulsione. Come? La pillola del non
ricordo? Mi sembrava un po’ una stupidaggine. Come tagliarsi via dei pezzi
di carne. Poi ci ho ripensato e anch’io ho qualche cosa che pagherei per
dimenticare. Qualche cosa? Diverse cose. Molte cose.
Queste notizie sono quelle che costringono a fare un esame, a tirare delle
somme. E ci caschi dentro, anche se non te ne accorgi, anche se non
vorresti. Leggo che hanno condotto ricerche per studiarne gli effetti.
Quando il propranololo, sottospecie della famiglia dei betabloccanti, era
ancora nella culla, si era intuìto che avrebbe avuto un glorioso destino
come anti-ipertensivo. Ma i figli crescono e le mamme imbiancano, e anche i
prodi propranololi devono adattarsi ai tempi che cambiano e alle nuove
battaglie. Non è più l’ipertensione il lupo cattivo da combattere. Le donne
subiscono aggressioni sessualmente scorrette, i bimbi camminano al bordo del
pericolo pedofilia, incidenti stradali, i militari tornano in patria e le
loro notti son spezzate dagli incubi. E allora al propranololo si cambia la
giubba e si dà il compito di fare da sedativo delle emozioni forti e dei
ricordi ripugnanti.
Non siamo più soldati di noi stessi. Occorrono le truppe ausiliarie, quelle
che si sostituiscono alla responsabilità personale e che, spostandoti dal
posto di comando, prendono il volante della tua anima. Siamo ridotti a un
coagulo di reazioni chimiche, modificabili con la pillolina adatta all’uopo.
Ad ogni uopo. Per dormire, per non invecchiare, per sentirsi felici, per
ringalluzzirsi, per non fumare, per stare calmi, per essere priapicamente
uomini. La ragione umana, già in vacanza da un pezzo, non riesce più a
capire chi siamo. Al punto che, se un Diogene redivivo tornasse ad
aggirarsi per le nostre strade, urlando, con la lanterna in mano: “Cerco
l’uomo”, molti lo prenderebbero per un vecchio addizionato balordo in cerca
di maschia prostituzione.
Forse, però, una confezione di prova di pillole smemoniche me la farei
inviare, dagli States. Ma prima di “doparmi”, dovrei imparare la sua lingua.
In corretto pillolese dovrei dirle: “Corri verso quel neurone sgradito,
cancella la serie delle sinapsi dell’annata taldeitali e, mi raccomando, non
avvicinarti manco di striscio alla sequenza dell’encefalo dove conservo
l’inflessione di quella voce, quello sguardo, il ricordo di quell’abbraccio,
il disegno di quella nuca, quella pagina di Carlo Emilio che ho riletto
l’altra sera, il colore di quelle nuvole sul mare, la faccia della gente che
amo”.
Capirà, il prode propranololo? O forse lui, generato per cancellare e
smemorato di natura, una volta partito per la sua missione obliogena,
dimenticherà le mie assolute consegne d’attacco? E cancellerà anche la
memoria olfattiva della frittura di ambulina, del salame rosa col budello
gentile e il profumo pesante e carico che si spandeva dai baracchini
affogati nella canicola del Po? Nel tuo esagerato zelo, cara pillolina, hai
spazzato via circuiti sinaptici a tutto spiano, nello stesso modo in cui
sono solita trascinare nel cestino i file inutili. Un disastro! Devo
ricorrere a un’altra pastiglia, commilitona della prima, parlarle in modo
più chiaro e chiederle di togliere solo le bruttezze, lasciandomi la carità
feroce del ricordo, i significati veri, i sentimenti intatti. Quello che
niente o nessuno può migliorare, peggiorare o cancellare. Quello che è solo
mio. Capirà?
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