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di Mina
Paradossi della Rete. A Ovest, in nome di una libertà che rasenta
la filibusta, gli hackers lanciano una sfida per domani. Obiettivo per
ottenere la vittoria: abbattere 6000 siti in un tempo massimo di sei ore. A
Est, invece, siamo ancora alla censura. E non a quella bonaria, di chi
magari sconsiglia, mettendo in guardia dai rischi della navigazione in mare
aperto. No. Qui si tratta di roba pesante.
Il recente rapporto annuale di “Reporters sans frontières”,
un’organizzazione in prima linea nella difesa della libertà di stampa,
documenta che in Cina sono almeno 42, attualmente, gli imprigionati per aver
osato criticare il regime di Stato su Internet. Emblematico il caso di Liu
Di, una studentessa di 22 anni, arrestata nel campus dell’università nel
novembre scorso. La famiglia non sa nemmeno dove l’abbiano rinchiusa, dopo
esser stata accusata di “attentato alla sicurezza nazionale”. La sua colpa è
quella di aver scritto, in alcuni forum, messaggi che invitavano ad ignorare
la propaganda del regime e ad amare la libertà. Huang Qi aveva creato il suo
sito (www.tianwang.com). Per questo è stato condannato a cinque anni di
galera con l’accusa di “incitamento alla rivolta contro i poteri dello
Stato”. La notizia della condanna gli è stata comunicata dopo un anno, in un
processo-farsa a cui si è presentato con evidenti segni di maltrattamento
sul viso e sul corpo.
In nazioni come Vietnam, Tunisia, Cina, Arabia Saudita, Maldive,
Cuba, Iran, Siria i regimi al potere controllano e reprimono la libertà
d’informazione internettiana, bloccando l’accesso a moltissimi siti e
intercettando le e-mail. Si usano filtri informatici che impediscono la
consultazione di siti ritenuti pericolosi per il regime. Uno studio della
Harvard University ha rivelato che su un campione di circa 200.000 siti, un
quarto di essi è inaccessibile dalla Cina. E tra questi, i siti della
informazione occidentale, come la BBC, la CNN, la Reuters, o quello di
“Amnesty International”.
E se non si riesce coi filtri, basta sorvegliare con cura. Come a
Cuba, dove computer e modem si comprano solo in negozi gestiti dal governo,
dopo aver compilato una sfilza infinita di carte in cui si deve dichiarare
che l’uso di Internet non viene fatto “in violazione dei principi morali
della società cubana”. Al che, dopo tutta la trafila si ha un pessimo
servizio e costi esorbitanti: un’ora di collegamento costa 5 dollari, e cioè
quasi la metà dello stipendio medio mensile.
Le autostrade telematiche propongono un progetto di libertà. La libertà
contiene indifferentemente arbitrio e conoscenza scientifica, anarchia
morale e politica e precisione cosciente, sregolatezza e opportunità. Per
questo, la libertà è un principio. Non è in assoluto l’idea o la
realizzazione del giusto. Per questo la Rete fa paura soltanto a quei regimi
che vogliono tenere ancora i propri cittadini sotto il giogo delle ideologie
precostituite. La temono come se fosse un cavallo di Troia del cosiddetto
Occidente, come Radio Londra durante l’ultima guerra o Radio Free Europe che
parlava di libertà in piena era sovietica.
Incarcerare, filtrare, ostacolare non serve. Il desiderio della
libertà alla fine vince, perché è più forte di ogni censura e di ogni
catena. Lo scrive Pasolini:
“La libertà è più forte:
sia pure per poco essa vuole essere vissuta. È un valore che distrugge ogni
altro valore perché ogni valore non è che una difesa eretta contro di lei”.
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