Società

Elogio del Grande Fratello:

In quella casa abita la vita
 

 

di Mina


Sarebbe troppo facile scaricare tutta la responsabilità sui primi colpi di sole di questo sfavillante inizio di primavera. Le parole in libertà non conoscono stagione. Emesse con la pesantezza delle sentenze definitive, te le ritrovi sulla bocca di uno qualsiasi dei cento oligarchi o caudillos della scena politica, pronte ad essere cristallizzate dai soliti giornalisti-segugi.


La parola grossa, la metafora azzardata e vetriolata, l’estenuazione del concetto sembrano essere l’unico modo per farsi ascoltare. Troppo molliccio e suorastico dire: “L’opposizione non sa proporre”. No. Per far colpo è obbligatorio dire che “è allo sbando, al tappeto, alla disperazione”. Al che, dall’altra parte ci si sente in diritto di replicare che quelle sono “parole di un uomo disperato”. C’è chi parla dell’articolo 18 e usa proclami del tipo: “bisogna fermare il patto scellerato”. Col piccolo particolare che basta poco perché qualcuno, che scellerato lo è per davvero, decida di provvedere alla messa in pratica del proclama, condendo le parole astiose con un surplus di sangue.


Tempo fa l’intelligenza di Ceronetti, che adoro, ci ricordava da queste pagine che “ogni emissione di luogo comune nella stampa o nell’etere, introduce nei tessuti viventi un po’ di questa morte del linguaggio”. Mi permetto di rincarare la dose, aggiungendo che ogni emissione di parola di acido rancore, di demonizzazione, introduce la distruzione dell’altro, messo alla gogna come nemico da abbattere. E la storia recente d’Italia è lì a documentare che c’è sempre qualche zelante che non si accontenta delle demolizioni verbali. Dalle P38 fino alle strade di Genova sventrate dal furore ideologico, la storia è sempre la stessa. Fino all’assurdo e alla vergogna di impedire di parlare al segretario di un importante sindacato e di far scoppiare un ordigno alla sede di Cagliari della CISL.


Ci sono in giro troppi nani che si illudono di acquistare qualche centimetro con l’aiuto delle parole scomposte. Ma la brevità epigrammatica, quella fondata sul furore demolitorio, è il più sottile travestimento della dissennatezza. Non è vero che lo slogan sia l’espressione sintetica di un concetto complesso, da comunicare in forma diretta. Dietro la frase ad effetto c’è sempre una riduzione pubblicitaria dell’idea a merce da vendere, se non addirittura una bella dose di mistificazione, uno scavalcamento della realtà dei fatti, una menzogna in più.


Ritorniamo a considerare il vero peso del linguaggio. Che non è quello che nasce dall’acredine che molti politici hanno in corpo. Le parole hanno già un senso, che non può essere manipolato da chi le usa come armi. Parafrasando Orazio, si potrebbe dire che “c’è un modo, una misura nelle parole”, che sono espressive di per sé, senza caricarle di inganno ideologico.


Due eccezioni nell’attuale panorama. Uno è il divino Andreotti di cui non ricordo nemmeno una parola sopra le righe. Ogni guerra verbale lo vede vincitore, perché lui, imperturbabile, dribbla le stilettate con la lepidezza del suo ironico distacco. E l’altro è Ciampi, il mio presidente preferito, che continua a invocare uno stile che ben pochi politici sanno incarnare.


Per tutti, politici, giornalisti e non, è più che mai attuale l’osservazione del filosofo francese Alain Finkielkraut: “Viene il tempo della sobrietà: il dialogo, l’amicizia e l’incertezza devono ritrovare i loro diritti”.
 

 

Società: «Elogio della moderazione: Troppe parole in libertà» - di Mina, La Stampa, Sabato 17 maggio 2003

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