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La
morte di un brigatista: |
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di Mina Alla fine anche Mario Galesi ha trovato pace. Nel cimitero di Trespiano, fuori Firenze. Clandestino, latitante. Solo nella vita ed ancora più solo nella morte. Un frate benedettino a celebrare un rapidissimo funerale, quattro becchini e nessun altro. Così come era rimasto solo per diversi giorni nella cella frigorifera dell'obitorio di Arezzo, con l'unica presenza di due agenti col compito di vigilarlo. È indubbio che neanche la comunanza di sangue è riuscita a scuotere i fratelli di Mario dalla decisione dura e radicale di interrompere ogni rapporto con un parente che aveva fatto la scelta sbagliata. Ma è altrettanto vero che dimostrare un ultimo segno di umana pietà non significa stare dalla parte di chi ha perso il senso della ragione, non vuol dire condividerne la follia omicida. La morte, come diceva il mio adorato Totò, è una livella e, appunto, livella tutto e tutti, e finisce per azzerare anche la colpa più agghiacciante pur non sminuendone i significati storici. Si desidera stare lontani da questa colpa, rifiutando ogni complicità ed addirittura ogni vicinanza fisica. Si può capire, anche se non condividere. L'uomo fisiognomico non è identificabile con la propria colpa. Si può e si deve rifiutare totalmente la follia della violenza, pur dimostrando un senso di pietà verso la persona che ha tremendamente sbagliato. Soprattutto se è già arrivata la morte a negargli addirittura il peso di un impossibile rimorso. Si deve condannare l'omicidio e soprattutto la follia ideologica che tenta di legittimarlo, spacciandolo per atto di giustizia. Lo si deve fare a maggior ragione alla vigilia del venticinquesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e del massacro dei suoi agenti, affermando che è solo assurdità criminale il movente di chi pensava e ancora pensa che attraverso la violenza e l'omicidio si possa costruire la società «perfetta». Neppure l'utopia, la più pura delle idee, si deve servire della distruzione dei simili. Mario Galesi ha voluto essere estremo ed estremista fino all'ultimo, con la kefiah da palestinese, come lui aveva chiesto alla compagna Desdemona Lioce in caso di morte. I suoi compagni, che non lo hanno abbandonato, hanno usato il suo funerale come ennesimo strumento del loro furore ideologico, con le corone di fiori rossi accompagnati dal biglietto che sentenziava: «Con amore rivoluzionario. I compagni e le compagne prigioniere». L'assassino morto merita qualcosa di diverso. Uno sguardo di pietà che probabilmente non apprezzerebbe, ma che è l'unico sentimento che il simile può e deve dedicare comunque al proprio simile. Vorrei che si trattasse di coraggio. Si dovrebbe avere il coraggio di non negare la pietà. Perché la morte è già giustiziera. Perché la condanna è già stata comminata. Perché, contrariamente a quanto molti affermano, si dovrebbe poter «toccare Caino». Tranne nel caso in cui, come per Mario Galesi, la morte non abbia già pensato a «toccarlo» per sempre. |
Società: «La morte di un brigatista: Il coraggio della pietà» - di Mina, La Stampa, Sabato 15 Marzo 2003