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Mina
«Non ti dimenticherò mai».
E ci crediamo, quando pronunciamo queste parole che sanno un po’ di
canzonetta, ma che dicono il desiderio di trattenere, almeno nella
memoria, quello che non siamo in grado di conservarci con le nostre
forze. Non è vero, non è possibile. E, mentre mi ribello a questa
legge, anche se sono convinta che la potenza dell’amore o dell’odio
superi la fisicità, mi rendo disperatamente conto che quella
inflessione di voce, quella andatura, quel tic che magari mi faceva
sorridere, quel modo di starnutire, quell’abbraccio, quel disegno
della nuca non li ricordo più così bene come vorrei. Non è possibile,
non è vero. Lo dice anche una recentissima ricerca di un gruppo di
scienziati svizzeri, che hanno individuato nella proteina PP1 la causa
della diminuzione della memoria.
Una proteina, un semplice dato fisico, che si macchia della colpa di
lasciar sbiadire, nella nostra memoria, ricordi e dettagli che col
passare del tempo si fanno via via sempre più vaghi. Lo immagino già,
il solito dottor Mabuse, che si impossesserà della scoperta. E in men
che non si dica, inventerà un inibitore della maledetta proteina
ammazzaricordi, che ci renderà tutti dei piccoli Pichi della
Mirandola.
Credevo che la memoria, i ricordi fossero l’unico paradiso dal quale
non fosse possibile essere cacciati. Ma analogamente ero convinta che
il grande meccanismo della conservazione di quanto di più decisivo fa
parte della nostra vita fosse esclusivamente responsabilità nostra.
Frutto di un impegno mentale, non di una combinazione chimica.
Sarà, ma non recedo. Non abbandono quella convinzione. Conosco persone
che, a dispetto della proteina PP1, hanno uno sguardo potente che si
fissa in un avvenimento del passato e lo sanno trattenere nel
presente. La loro memoria agisce come un catalizzatore di eventi e il
loro passato rivive nel riconoscimento di un presente in cui
ancora agisce, così che non c’è più nessuna distanza tra le cose.
Ci hanno provato in tanti, da sempre, a cancellare questa capacità di
ricordo. A livello sociale, attuando la rottura con la tradizione, col
passato, che è anche la rottura col proprio cuore.
Lo scrive Solzenicyn, che nei suoi romanzi
parla del suo popolo russo, dicendo: «E’ diventata gente senza
memoria», e quindi «generazione muta».
Ma è nella memoria che l’uomo porta il suo significato, che in
definitiva coincide con la propria autocoscienza. Il significato non è
un’invenzione, è il senso di un cammino; ed è ancora la memoria che
registra il senso dello svolgimento del nostro tempo.
E allora è soltanto il sentimento quello che rimane intatto, per
sempre. L’amore, quello non ci sono proteine che possano impallidirlo
e spero che non venga mai qualche scienziato a sostenere che ho torto.
Lasciateci questa «carità feroce del ricordo», lasciateci l’unica
certezza, quella di avere a che fare con qualcosa che non può più
cambiare, che nessuno e niente può più migliorare o peggiorare.
Lasciateci l’unica cosa che possiamo definire completamente nostra.
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